L’Onu: «Niente carcere per i reati senza vittime»
La decisione della Corte costituzionale sul referendum cannabis cade in un momento storico in cui in seno alle Nazioni Unite, e a livello nazionale dentro e fuori l’Europa, l’approccio al controllo delle sostanze psicoattive illegali è in costante mutamento. Iniziato con la stagione referendaria che negli ultimi 10 anni ha portato 19 Stati Usa a legalizzare produzione, consumo e commercio della cannabis e derivati e proseguito con la regolamentazione legale in Uruguay nel 2014, in Canada nel 2018 fino a Malta all’inizio del 2022 il cambiamento è irreversibile. Il vero punto di svolta di questo processo riformatore è la seconda Sessione speciale dell’Assemblea Generale sulle droghe (Ungass) convocata dell’Onu nell’aprile del 2016. Nel documento finale del summit si riconosce che le Convenzioni internazionali «consentono agli Stati una flessibilità sufficiente per progettare e attuare politiche nazionali in materia di droga in base alle loro priorità e necessità».
La riunione Ungass doveva tenersi nel 2019; grazie all’insistenza di alcuni dei Paesi maggiormente colpiti dalla war on drugs l’Onu fu costretta ad anticiparla di tre anni. Oltre a lamentare la mancanza di risultati, Guatemala, Colombia e Messico ritenevano drammaticamente onerose, dal punto di vista umanitario ed economico, le politiche antidroga proposte da Pino Arlacchi all’Ungass del ‘98. Un cambiamento sostenuto anche dal Governo italiano di allora che chiedeva politiche basate su evidenze scientifiche.
Questo mutato clima internazionale ha consentito l’accelerazione del lavoro del gruppo di esperti dell’Organizzazione mondiale della Sanità per rivedere la collocazione di alcune sostanze nelle tabelle delle Convenzioni. Dopo consultazioni pubbliche e un’attenta analisi dei più recenti studi, il 2 dicembre 2020 la Commissione droghe dell’Onu ha votato per cancellare la cannabis dalla Tabella IV della prima Convenzione, riconoscendone l’efficacia dell’impiego terapeutico e rimuovendola da quelle sostanze che in ragione delle «proprietà particolarmente nocive» devono essere sottoposte a «misure di controllo speciali». La decisione, adottata a stretta maggioranza con il voto favorevole dell’Italia, rappresenta il primo caso di esclusione di una pianta dalle tabelle.
«Alcuni Stati sono andati oltre quanto richiesto dai trattati sul controllo delle droghe in termini di criminalizzazione e sanzioni associate, mentre altri hanno dimostrato uno zelo eccessivo nell’applicare le previsioni di criminalizzazione». Non è un’autocitazione ma quanto affermato dal gruppo di lavoro dell’Onu sulla detenzione arbitraria nel rapporto relativo alle politiche sulle droghe che pone l’accento sul bilanciamento tra il controllo internazionale delle droghe e il rispetto dei diritti umani. Mentre la media mondiale di detenuti per “droga” è del 21,65%, in Italia è quasi 36%. Un dato doppio della media europea (18%) e superiore a Messico (9,7%), Usa (20%), Colombia (20,7%) e Russia (28,6%).
Lo scorso 10 dicembre, in occasione della giornata mondiale per i diritti umani, Jagjit Pavadia, Presidente dell’International Narcotics Control Board (Incb) ha chiarito che le Convenzioni sulle droghe non possono esser utilizzate come giustificazione del ricorso al diritto penale per governare «azioni che non hanno vittime». La dichiarazione dei vertici dell’Incb conferma il cambio di rotta anche del più conservatore tra gli organi internazionali in materia di stupefacenti illeciti. In una nota per il rapporto sulla detenzione arbitraria, il Board ha inoltre specificato che «i trattati sul controllo delle droghe non richiedono che le persone che usano droghe, o quelle che commettono reati minori droga correlati, debbano essere incarcerati». L’Incb sostiene infine che «un’infrazione punibile non necessita tuttavia (per gli obblighi derivanti dai trattati, ndr) di essere definita come reato e gli Stati possono adottare misure alternative alla detenzione. Ciononostante, l’ampio uso della carcerazione per reati di droga di basso livello persiste in molti Stati. Anche se secondo le convenzioni sul controllo delle droghe solo i reati “gravi” dovrebbero essere passibili della pena dell’incarcerazione, la scelta della punizione in risposta ai reati legati alla droga – conclude l’Incb – dovrebbe essere adeguata e direttamente proporzionata alla gravità del reato commesso».
Flessibilità, proporzionalità e rispetto dei diritti umani. Paradossalmente, di questi principi cardine forse il solo praticato in Italia nel 1990 è stato la flessibilità che fece collocare la cannabis nella tabella II (con pene e sanzioni notevolmente più basse) nel Testo Unico sulle droghe, nonostante fosse allora ancora fra le sostanze «particolarmente nocive» della tabella IV della Convenzione del ‘61.
Il contesto politico generale è cambiato, la cannabis più di ogni altra coltivazione illecita fa parte della cultura del nostro Paese, cancellare le sanzioni più pesanti che ancora sono previste per condotte che non recano alcuna vittima è in linea con quanto raccomandato dall’Onu negli ultimi anni.
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