L’Onu conta 284 civili uccisi: «La Libia non è un porto sicuro»
Nord Africa Aumento del 25% dal 2018. Nel mirino delle fazioni ci sono cliniche, giornalisti, migranti. Oltre il 60% uccisi dai droni arrivati da paesi stranieri in violazione dell'embargo delle Nazioni unite
Nord Africa Aumento del 25% dal 2018. Nel mirino delle fazioni ci sono cliniche, giornalisti, migranti. Oltre il 60% uccisi dai droni arrivati da paesi stranieri in violazione dell'embargo delle Nazioni unite
Ieri mattina, a est di Tripoli, sul quartiere di Tajoura sono rimbombati colpi di mortaio. È la guerra che prosegue tra Tripoli e Bengasi e lo fa nel luogo che il 2 luglio scorso fu teatro di una strage di migranti africani, intrappolati in uno dei centri di detenzione libici.
La scorsa estate il bombardamento notturno delle forze del generale cirenaico Haftar che aveva distrutto il capannone e ucciso almeno 53 persone (135 i feriti, 300 i sopravvissuti) aveva ricordato cos’è la Libia per i richiedenti asilo. Ora lo ribadisce anche l’Onu: non è un paese sicuro.
«Siamo preoccupati per il deterioramento della situazione dei diritti umani in Libia, compreso l’impatto del conflitto sui civili, gli attacchi contro difensori dei diritti umani e giornalisti, il trattamento di migranti e rifugiati, le condizioni di detenzione e l’impunità», si legge nel comunicato di venerdì di Rupert Colville, portavoce dell’Alto Commissariato per i diritti umani, che cita sovraffollamento nelle carceri, 61 attacchi a strutture mediche e i 100mila civili a rischio sfollamento (in aggiunta ai 343mila già sfollati dal conflitto).
Lo dicono i numeri, non dovessero bastare i reportage giornalistici che in questi anni hanno raccontato l’inferno libico, le torture nei centri di detenzione, gli stupri: «Nel 2019 il nostro ufficio, insieme alla missione Unsmil, ha finora documentato almeno 284 morti civili e 363 feriti a seguito del conflitto armato in Libia, un aumento di oltre un quarto del numero di vittime registrato nello stesso periodo dell’anno scorso».
Principale responsabile sono gli attacchi aerei (182 morti e 212 feriti) e poi gli scontri terresti, le mine, i rapimenti. Da cui, conclude l’Alto Commissariato citando gli oltre 8.600 migranti catturati in mare dalla Guardia costiera di Tripoli, la Libia «ovviamente non può essere considerato in nessun modo un porto sicuro per lo sbarco». Una denuncia che arriva a un mese e mezzo dal rinnovo automatico del memorandum tra Italia e Libia.
L’Onu è chiara, i migranti sono sottoposti a torture e abusi. Ma per l’Europa possono restare dove sono, sebbene in questi mesi sia l’Unhcr che l’Oim abbiano chiesto la liberazione delle migliaia di migranti detenuti nei centri, ufficiali e ufficiosi, sparsi per il paese nordafricano, attraversato dallo scorso aprile dal rinnovato scontro tra l’esercito del generale Haftar e il Governo di accordo nazionale del premier al-Sarraj, esploso dopo l’avvio dell’offensiva cirenaica sulla capitale.
Otto mesi in cui, come spiega l’Onu, a morire sono decine di civili. Uccisi per lo più dal cielo: oltre il 60% delle 284 vittime sono state provocate dai droni. Oltre mille gli attacchi via drone dallo scorso aprile, tutti arrivati da fuori in violazione dell’embargo imposto dalle Nazioni unite: come spiega in un reportage del 22 dicembre il Washington Post, ci sono droni cinesi, gli Wing Loong, utilizzati dagli Emirati arab; i Bayraktar TB2 turchi; e gli MQ-9 Reaper americani usati contro gruppi islamisti.
Fanno vittime civili: a luglio un drone ha colpito un ospedale da campo (cinque medici uccisi), ad agosto un attacco delle forze di Haftar ha fatto 45 morti in un sobborgo di Tripoli. Un mese dopo la strage di Tajoura.
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