Lontano dalle riserve, i nativi americani e il noir
Il percorso Con «Gli unici indiani buoni» (Fazi), Stephen Graham Jones rinnova il canone caro a Tony Hillerman. Tra Navajo, Hopi, Pueblo e Cherokee storie che indagano il confronto tra tradizione e modernità, la cruda bellezza della natura e l’ardua vita
Il percorso Con «Gli unici indiani buoni» (Fazi), Stephen Graham Jones rinnova il canone caro a Tony Hillerman. Tra Navajo, Hopi, Pueblo e Cherokee storie che indagano il confronto tra tradizione e modernità, la cruda bellezza della natura e l’ardua vita
Tutto ha inizio con un segreto gelosamente custodito tra quattro amici. Ma che nessuno di loro ne faccia parola con altri non è sufficiente, non mette Lewis, Gabe, Rick e Cass al riparo dalle conseguenze del crimine di cui si sono macchiati dieci anni prima: in quanto accaduto allora, l’aver violato la legge degli uomini è stata infatti la colpa meno grave della quale sono stati responsabili. In una zona di caccia destinata agli anziani della tribù nei pressi del Duck Lake, in mezzo alle neve, si erano imbattuti in un grande branco di wapiti, una delle specie di cervo più imponenti che esistano, le corna che possono sfiorare i due metri, ancora presenti in alcuni parchi del Nord degli Stati Uniti e del Canada, e violando ogni regola della riserva si erano scatenati. Come ricorda Lewis, «tutti quei corpi enormi e perfetti stagliati contro il bianco assoluto erano uno spettacolo che non avevo mai osservato così da vicino. Almeno non con un fucile tra le mani, e senza turisti intorno a scattare foto».
All’epoca erano poco più che ragazzi, e con quella caccia selvaggia avevano creduto di aver accesso al mondo degli adulti, di diventare dei «veri indiani», così come accaduto per centinaia di anni nelle pianure del North Dakota. Eppure, di quella notte, di tutti quei capi uccisi e macellati sul posto prima che le intemperie ne rovinassero le carni, il ricordo più nitido che conservavano era quello di una giovane wapiti incinta che, per quanto colpita più volte, di morire sembrava non averne voluto sapere. Sempre Lewis credeva di rivederla ancora molto tempo dopo, come un’ombra stagliata sulla parete del salotto del suo appartamento fuori dalla riserva, con le sembianze di «una donna con una testa non umana».
Stephen Graham Jones è uno scrittore texano di 53 anni, nativo americano e appartenente alla tribù dei Piedi Neri, che con Gli unici indiani buoni (Fazi, pp. 350, euro 18,50, traduzione di Giuseppe Marano), il suo secondo titolo ad essere tradotto nel nostro Paese dopo Albero di carne (Racconti, 2016), mentre negli Stati Uniti ha pubblicato decine di romanzi e raccolte di short stories, mescola i tempi del noir con le atmosfere dell’horror, intrecciando l’evocazione del soprannaturale all’eco delle tradizioni con cui chi ancora oggi vive dentro o ai margini delle riserve «indiane» tenta di misurarsi. L’atto sanguinario con cui i quattro protagonisti della storia violano lo spazio sacro della propria tribù diventa così allo stesso tempo l’innesco per un itinerario a capofitto nei recessi più oscuri della mente e delle paure che vi albergano, e un modo inedito per affrontare cosa significhi oggi sentire su di sé il portato di un’identità complessa e nella quale le difficoltà del presente si misurano di continuo con i miti tramandati di generazione in generazione. «Rileggendo il libro – ha spiegato l’autore che mette in parallelo il gesto che è all’origine della vicenda ad una strage compiuta dall’esercito statunitense contro i Piedi Neri nel 1870 a Baker, in Montana, in una sorta di «stratificazione del male» -, mi sono accorto che in realtà tutti i personaggi cercano di capire che cosa significa essere un buon indiano».
Stephen Graham Jones appartiene ad una generazione di autori che da David Heska Wanbli Weiden a Andrea L. Rogers, da Louise Erdrich a Cheri Dimaline, da Mardi Oakley Medawar a Louis Owens, per non citare che alcuni dei più noti, negli ultimi anni sta indagando dall’interno le culture native tra Canada e Stati Uniti intrecciando i canoni del thriller e della science fiction, come delle infinite rivisitazioni del romanzo poliziesco. Il fenomeno, come ha sottolineato proprio David Heska Wanbli Weiden, Lakota americano, autore di diversi noir e docente di Studi nativi alla Metropolitan State University di Denver, in Colorado, è però tutt’altro che una novità.
«La crime fiction nativa ha radici profonde», ha scritto in un’ampia monografia sul tema pubblicata su The Strand Magazine dove spiega come gli storici ritengano che il primo romanzo mai scritto da un nativo americano sia La vita e le avventure di Joaquín Murieta (1854) dello scrittore Cherokee John Rollin Ridge che racconta la storia di un immigrato messicano che cerca vendetta dopo che la sua famiglia è stata assassinata dai coloni bianchi; una vicenda ripresa anche da Pablo Neruda e, più tardi, sulla scorta di un testo del poeta cileno, dagli Inti Illimani.
Nei primi decenni del Novecento toccherà quindi allo scrittore della tribù Choctaw Todd Downing pubblicare una serie di romanzi polizieschi, la maggior parte dei quali ambientati però in Messico e con protagonisti non nativi. Infine, segnala ancora Heska Wanbli Weiden, è all’autore di origine puebla Martin Cruz Smith, che ha firmato molti thriller di grande successo, che si deve probabilmente il primo vero «noir nativo». Si tratta di L’ala della notte (uscito in Italia nel 1977 per Mondadori), un mistery legato all’immaginario religioso Hopi, le tribù presenti soprattutto nel Sud-Ovest del Paese e in modo particolare in Arizona. Il vice sceriffo Youngman Duran, ex-tossicodipendente e ex sergente dell’aviazione in Vietnam, passato per le carceri militari statunitensi, deve indagare sulla morte di Abner Tasupi, un anziano sciamano Hopi che stava cercando di fermare con le arti della magia tradizionale il tentativo della El Paso Gas di mettere le mani sulla terra dei nativi. Già nel 1970, Smith aveva però pubblicato The Indians Won (tutt’ora inedito nel nostro Paese), il primo romanzo di «storia alternativa» scritto da un nativo che immaginava come nell’Ottocento tutte le nazioni indiane avessero collaborato per sconfiggere l’esercito «dei bianchi» e creare un Paese indipendente negli Stati delle grandi pianure centrali.
Ma, naturalmente, raccontare il rapporto tra i nativi americani e questo ambito della narrativa di genere significa parlare soprattutto di Tony Hillerman, lo scrittore dell’Oklahoma scomparso nel 2008 a 83 anni lasciando dietro di sé decine di romanzi polizieschi ambientati nelle riserve e con protagonisti esclusivamente indiani, da cui sono stati poi tratti film e serie tv. Si devono a lui figure indimenticabili come Joe Leaphorn e Jim Chee, rispettivamente tenente e sergente della polizia tribale attivi nella regione Navajo dei Four Corners, lungo il confine tra Nuovo Messico e Arizona. Di Hillerman, negli ultimi anni sono tornati in libreria per HarperCollins le prime due indagini di Leaphorn e Chee, Il canto del nemico (2021) e Là dove danzano i morti (2022), entrambi pubblicati all’inizio degli anni Settanta, oltre all’inedito Donna che ascolta (2022). Romanzi nei quali si respirano gran parte dei temi cari all’autore, a partire dal confronto/scontro tra tradizione e modernità, con il pragmatico, e più anziano Leaphorn spesso perplesso di fronte a riti e cerimonie, mentre il suo giovane collega aspira addirittura a diventare uno sciamano. Sullo sfondo, la cruda bellezza della natura locale e la difficile vita nelle riserve, specie per le nuove generazioni di nativi.
Al nome di Hillerman è legato anche un paradosso, almeno apparente. Proprio lo scrittore che meglio ha utilizzato le storie criminali per indagare l’animo dei nativi, tanto da meritarsi il soprannome di «Chandler dei Navajos» era in realtà figlio di un contadino di origine tedesca e quello che sarebbe divenuto il suo «popolo d’elezione» lo aveva scoperto già cinquantenne durante una serie di viaggi compiuti con la moglie tra le montagne del Sud-Ovest americano.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento