Londra, il business as usual che non vede la disperazione
Westminster Dietro la confusione letale fra identitarismo nazional-religioso e rivendicazioni politico-economiche sta la frustrazione di chi è costretto ai margini
Westminster Dietro la confusione letale fra identitarismo nazional-religioso e rivendicazioni politico-economiche sta la frustrazione di chi è costretto ai margini
Era solo una questione di «quando», non «se» sarebbe successo. L’orrida scia di sangue che stria le capitali europee ormai da tempo e che proprio qui – a parte l’isolato benché brutale omicidio del soldato Lee Rigby, quattro anni fa – aveva avuto negli attacchi del luglio 2005 la sua epifania continentale era attesa, temuta, prevista. E con la stessa elasticità con cui si era ripresa nel 2005, la comunità trans e postnazionale che popola questa città vasta e complessa si è rimessa in moto.
Incassato il duro colpo, la vita nella metropoli cerca di riprendere come prima. Anche mercoledì sera, giorno stesso dell’attentato, i teatri erano pieni, le vetrine del West End illuminate: anche se gli inglesi sono quasi ormai in minoranza in molti quartieri, questa resta la città che ha sopportato ondate di bombardamenti tedeschi durante il Blitz nella seconda guerra mondiale. Nella quale lo slogan governativo, «Keep calm and carry on» – quanto di più totalitariamente orwelliano una democrazia liberale sia mai riuscita a esprimere – oggi è diventato un quasi-meme pubblicitario dall’onnipresenza ormai querula e imbecille.
Theresa May ha voluto subito enfatizzare la resilience, la capacità di tenuta della cosiddetta società civile annunciando in aula subito dopo l’attacco che non c’era alcuna intenzione di alzare ulteriormente la soglia di rischio per la sicurezza, mantenendola «alta» com’è ormai già da qualche anno.
Non è insomma diventata «critica», stadio che prevede l’imminenza di altre azioni terroristiche e che ha un impatto importante sul normale funzionamento metropolitano: una dimostrazione di fermezza politica di fronte al potenziale destabilizzante di un simile colpo ai gangli vitali del potere statale che può contare su un’effettiva mancanza d’indizi circa analoghi rischi nelle prossime ore.
Qualunque si rivelasse l’entità di un suo eventuale contatto con i centri operativi dell’Isis, l’azione di Masood può essere letta come una delle tante azioni suicide isolate di individui già ai margini del tessuto sociale, per le solite ragioni extrareligiose. In cui si riflette una crescente incapacità di organizzazione dalle roccaforti assediate dell’Isis. Sarebbe insomma un segno di debolezza del terrorismo islamico e non di forza.
Ma se da una parte questo è paradossalmente confortante – segno inoltre evidente di una progressiva incapacità di coordinamento operativo londinese soprattutto se paragonato a quello di cellule distaccate nelle varie capitali europee (di certo a Londra manca una presenza simile a quella di Parigi o Buxelles anche perché mancano i ghetti che in quelle città sono diventati delle perfette serre di odio) – dall’altra è altrettanto inquietante.
Perché dimostra una volta di più come attraverso il dilagare digitale indiscriminato di uno scellerato delirio ultra-ortodosso si crei una confusione letale fra identitarismo nazional-religioso e rivendicazioni politico-economiche perfettamente laiche e fin troppo terrene. Dietro cui troppe volte c’è una disperazione che spinge a preferire un aldilà inesistente a un aldiquà insopportabile.
Il rischio terroristico a Londra è alto da sempre. Non va dimenticato che ben prima di quello islamista la città aveva subito i ripetuti attacchi di quello repubblicano paramilitare irlandese, che nel 1991 fu capace di sferrare un attacco a Downing Street con colpi di mortaio che avevano l’allora premier John Major come bersaglio. E davvero non c’era bisogno che ieri si tenessero i funerali di Martin McGuinness – emblematica coincidenza – per notarlo.
Ma la logica dietro quel tipo di attacchi era l’opposto di quella jihadista: aveva obiettivi politici ben precisi e tendeva a evitare la strage di civili, nella consapevolezza che la morte seminata indiscriminatamente fosse deleteria al conseguimento degli obiettivi. Soprattutto non era suicida. Questo terrore fa della morte elargita ciecamente, come del sacrificio ultimo personale, l’unica sua ragion d’essere.
Nessun servizio di sicurezza per quanto sofisticato, nessun Bond dotato di tecnologia futuribile può penetrare la psiche di un uomo disperato. La fermezza del business as usual deve confrontarsi con il rischio endemico della propria negazione.
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