In Argentina ha vinto la bronca, la rabbia contro «la casta», la voglia di far saltare in aria gli equilibri a qualunque costo. L’anarcocapitalista Milei si è aggiudicato il ballottaggio al cardiopalma per la presidenza del paese. Per il futuro ha annunciato la ricostruzione del paese in base alla libertà, di commercio e dell’individuo. Libertà senza democrazia. Il movimento della estrema destra globale, Donald Trump in testa, lo applaude.
È un pessimo risultato per l’Argentina. Per ottenerlo, negli ultimi giorni della sua campagna elettorale, il 53enne leader dell’ultradestra ha cercato di evitare i toni più estremisti per dare sostanza all’alleanza con Juntos para el cambio dell’ex presidente Mauricio Macri. Alleanza che gli ha portato i voti necessari alla netta vittoria. Così ha evitato di parlare di privatizzazione della salute e dell’educazione pubblica e ha definito le sue precedenti proposte di libera contrattazione di organi umani come «pura speculazione ideologica». Per quanto riguarda la provocatoria proposta di dar fuoco al Banco central e adottare il dollaro Usa come moneta nazionale, ha precisato che «ha un piano quinquennale» per la dollarizzazione.

IN SOSTANZA la vittoria di Milei potrebbe, secondo vari analisti, essere un successo per procura dell’ex presidente Macri: nonostante la sua formazione sia stata eliminata dal ballottaggio con la sconfitta della sua candidata Bullrich, l’ex presidente sarebbe rientrato ai vertici del potere con il suo endorsement a Milei. Dunque Macri sarebbe una sorta di king maker, e quello che si prospetta dopo l’investitura di Milei il 10 dicembre sarebbe una sorta di macrismo 2.0. Ovvero di quella politica neoliberista estrattivista che, mediante il prestito suicida avuto dal Fmi, ha riportato il paese sull’orlo della bancarotta.

Che la dollarizzazione dell’Argentina voluta da Milei sia tutt’altro che una panacea per l’eterna crisi del paese lo hanno detto chiaro vari economisti, (compresa Julia Strada, il manifesto 19 novembre). La Banca centrale argentina non ha sufficienti dollari per sostenerlo. E comunque la decisione implicherebbe tagliar fuori due terzi degli abitanti – naturalmente i livelli più bassi della società – perché abbia una possibilità di funzionare. Del resto i precedenti a livello subcontinentale, come la dollarizzazione dell’Ecuador alla fine del secolo scorso, hanno dimostrato che invece che domare l’inflazione e ridurre la povertà, l’adozione della moneta Usa ha portato a un aumento scandaloso della speculazione internazionale e della crisi economica e sociale. Ovvero è stata una delle cause che, lo scorso ottobre, hanno portato alla presidenza Daniel Noboa. Il giovane milionario si vuole presentare come la faccia pulita della destra locale, ma i vincoli del padre con il narcotraffico e speculazioni di fatto lo inseriscono nell’arrembante estrema destra.

INOLTRE, LA SCELTA fatta da Milei di concorrere alla presidenza avendo come vice la 48enne avvocata Victoria Villaruel indica che la politica di “cambio” rispetto al passato peronista e la decisione del futuro presidente di «volver a empezar» (cambiare tutto), indurranno, oltre al caos economico, una spirale di violenza. Villaruel infatti non ha un capitale politico proprio, non ha apportato voti decisivi –ci ha pensato Macri. Ma ha assicurato solidi legami con le forze di sicurezza. E l’aperto sostegno di quei settori delle Forze armate impegnate nel tentativo di far scordare i massacri del periodo della dittatura di Videla e Massera. E che pretendono una riabilitazione dalle condanne, morali e penali, seguite al “Nunca mas”. Anche con le minacce, che già sono iniziate.

IL SUCCESSO di Milei è una pessima notizia anche per il subcontinente latinoamericano.
La conquista della presidenza di Macri e la sconfitta del kirchnerismo peronista nel 2015 diedero inizio alla riscossa delle destre latinoamericane nei confronti della cosidetta “marea rosa”, ovvero i governi socialisti o progressisti in San Salvador, Venezuela, Messico, Ecuador, Bolivia, Brasile, Perù, Uruguay e Argentina, oltre a Cuba. Oggi la vittoria di Milei dovrebbe dimostrare che è vincente la linea proposta al subcontinente dai fautori di una radicalizzazione della destra: quella presentata dall’alleanza della spagnola Vox (appoggiata da Meloni, Orban e destre europee) con forze locali di ultradestra in Perù, Cile, Colombia, oltre che Argentina.

COME ASSE teorico hanno la Fundación internacional para la libertad, un vero fronte internazionale antiprogressista patrocinato dal Nobel (letteratura) peruviano Mario Vargas Llosa. Si tratta di politiche volte a attuare un atrevido, esperimento di riorganizzazione della società, orientata «alla mercantilizzazione assoluta della vita dei cittadini in beneficio di alcuni settori del gran capitale» come la definisce l’analista argentino Daniel Campione.
Per valutare la portata della riscossa dell’ultra destra latinoamericana (anche come metastasi di quelle europee) è sufficiente elencare i personaggi che hanno appoggiato la campagna di Milei: dall’inviato di Vox, Herman Tertsch, a Edoardo Bolsonaro, gli ex presidenti messicani Felipe Calderón e Vicente Fox, i colleghi colombiano Iván Duque, boliviano Jorge “Tuto” Quiroga e cileno Sebastian Piñera. Tutti affiliati al Think tank di Vargas Llosa.

DI FRONTE a tale virulenta riscossa dell’ultra destra, appaiono in difficoltà i governi progressisti della regione, impegnati soprattutto a garantirsi una sopravvivenza guardando al centro. È il caso del presidente brasiliano Lula e le sue recenti decisioni di cambiamenti nella sfera governativa per cercare di ottenere l’appoggio del cosiddetto Centrão alla riforma tributaria. Diverse le scelte del presidente colombiano Gustavo Petro, allontanatosi dallo «spirito di concertazione» con l’uscita dal suo governo dei ministri di altri partiti, e sempre più isolato.

In questo quadro, il governo socialista cubano, eterno nemico della destre latinoamericane, rischia un isolamento tanto più pericoloso di fronte a inasprimento delle sanzioni dell’amministrazione Biden. La scelta di Cuba di appoggiare la lotta di liberazione dei palestinesi e l’altrettanto netta condanna della politica di genocidio in corso a Gaza da parte di Israele hanno fortemente irritato Washington che minaccia nuove misure. In questo caso contro «la tratta di immigrati» cubani verso gli Usa.