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Ricardo Piglia, alla luce bugiarda dei fatti, il pathos resiste

Ricardo Piglia, alla luce bugiarda dei fatti, il pathos resisteSantiago Cogorno, «Figura con ventaglio», 1980 ca.

Scrittori argentini Tanto i romanzi quanto la forma breve, ereditata da Juan Carlos Onetti, servirono a Ricardo Piglia per esercitare la sua personale idea di finzione speculativa. In «Pena perpetua», due nouvelles tessute intorno a segreti invisibili al narratore: da Wojtek

Pubblicato circa un mese faEdizione del 6 ottobre 2024

Secondo una tradizionale definizione, la detective story muoverebbe dal problema filosofico di ristabilire l’ordine nell’universo in cui un evento traumatico è intervenuto a causare lo scompenso. Nel compasso più o meno ampio tra gli sforzi per il ritorno all’equilibrio e l’effettivo approdo – attraverso l’affermazione della giustizia o l’identificazione del «colpevole» – si misurerebbe dunque lo spettro delle variazioni sul canone del genere.

Molto amato da Ricardo Piglia, che in Argentina agli inizi della sua carriera ne curò per diversi anni una nota collana, il genere poliziesco offrì allo scrittore la cornice prediletta entro cui dipanare, o dalla quale far esondare, molte delle sue narrazioni, dotandosi di un proprio investigatore ricorrente, il commissario Croce, protagonista di numerosi racconti e agente dell’ordine nell’intrigo di Bersaglio notturno, malinconico e straordinario romanzo del 2010 recentemente riproposto da Sur.

Esperimenti formali
In sintonia con l’impronta speculativa che risale al poliziesco delle origini (in alcuni racconti di Edgar Alla Poe) Piglia trovò nella sua personale reinterpretazione del genere lo spazio dove esercitare la propria tensione intellettuale – tradotta tanto negli esperimenti relativi alla struttura del racconto quanto nei dilemmi filosofici di cui si fanno portavoce i suoi narratori – una tensione che vivificò tutta la sua multiforme produzione letteraria. Da qui, la sperimentazione, accanto a una bibliografia composta di «soli» cinque romanzi, della la forma della nouvelle (come la chiama nei suoi scritti teorici), o romanzo breve, che volle ereditare dal prediletto Juan Carlos Onetti. Nella forma dello scrittore rioplatense, infatti, il romanzo breve presentava – a detta di Piglia – tutte le caratteristiche del puro racconto speculativo: conservava la misura minima necessaria a garantire alla voce narrante la libertà di divagare e farsi commento, o più volentieri autocommento; allo stesso tempo, rinunciando agli elementi superflui, proiettava la narrazione verso un centro che, tuttavia, restava interdetto alla vista dello stesso narratore (e, di conseguenza, anche del lettore).

Dimenticata la ricerca di una qualsivoglia armonia perduta, e accantonata la pretesa illusoria di raccontare una storia attenendosi a quelli che si pretenderebbero i «duri fatti» (i quali sotto la lente tanto di Onetti quanto di Piglia vanno via via sfumando in una assai meno rassicurante mistura di sogni, menzogne, e allusioni a vicende taciute), lo spirito «poliziesco» sopravvive nella nouvelle attraverso la ricerca degli indizi che portano all’individuazione di quel segreto che, proprio secondo l’analisi critica di Piglia dedicata all’opera del suo maestro, ne costituisce la pietra angolare. Va da sé che l’unico detective non potrà essere altri se non il lettore.

Perfetto prototipo di questa forma narrativa insieme avvincente ed elusiva è il primo dei due titoli che compone la raccolta eponima Pena perpetua (ora edito da Wojtek nella traduzione di Federica Arnoldi e Alfredo Zucchi, pp. 128, € 16,00) dove la ricostruzione di una trama sembra impossibile. Vi si alternano, infatti, una successione di narratori che talvolta si confondono fino a ricombinarsi in un misterioso prisma narrativo, capace di creare effetti di rifrazione e scomporre la luce bugiarda dei fatti («L’esperienza ha una struttura complessa, opposta in tutto e per tutto a quella della verità», sentenzia uno dei personaggi).

Dal disordine apparentemente irriducibile delle vicende narrate, una configurazione plausibile emerge però in controluce e sembra restituire, deformata da uno specchio, se non una qualche verità, almeno una sua luce riflessa. Sono visibili le tracce di quella esasperata, labirintica intertestualità che attraversa l’opera di Piglia: «Pena perpetua» si presenta come uno stralcio dai Diari di Emilio Renzi (inediti in Italia), alter ego finzionale dello scrittore argentino. Nel suo journal intime, Renzi parrebbe apprestarsi a raccontare – come si conviene a un diario – le sue vicende personali, salvo poi svicolare nei rivoli secondari suggeriti dalla vita stessa: mentre sembrava di leggere il resoconto della fuga da Buenos Aires della sua famiglia, alla caduta del peronismo, il narratore lascia che si infiltri tra le pagine una storia che non gli appartiene. La «vera» storia della nouvelle sarebbe allora quella di Steve Ratliff, mentore letterario di Emilio, nella cui biografia si nasconde almeno un segreto.

I pensieri di Steve si mimetizzano nel diario del suo pupillo, fino a impossessarsene: Piglia confonde volutamente i passaggi del narratore, e del suo diario, con il flusso verbale dei personaggi, fino a raggiungere la massima indeterminatezza possibile («Lo ha detto Steve?», si chiede alla fine il testo).

Quanto al Renzi, egli trova sempre il gesto più naturale per mischiare narrazione e riflessione, e come un perfetto detective classico, o come il Don Isidro Parodi di Bioy e Borges, indaga sempre da fermo, restando sul posto, in quel caso dalla cella del penitenziario di stato, in questo dall’interno delle pagine del suo diario.

Al resoconto di un fatto di sangue legato alla vita di Steve – interpolato da una carrellata sulla sua eccentrica opera letteraria, riportata in extenso – fa seguito un racconto che sembra riecheggiare, attraverso improvvise corrispondenze e risonanze, quanto era stato detto fin lì: una sorta di storia narrata in due tempi, nel quale il secondo, che si direbbe più apertamente finzionale, dovrebbe, come in uno stralunato meccanismo pseudoscientifico, offrire la prova empirica della veridicità del primo.

Il cristallo perfetto creato da questa complessa struttura lascia il lettore sconcertato e lo costringe a tornare sui propri passi, valutando sotto nuova luce certi dettagli che aveva trascurato. Dentro quel cristallo, a ben vedere, scorre un flusso ammaliante, nel quale sopravvivono, immerse come in un liquido amniotico, le vicende umane dei personaggi evocati, sature di un pathos mai davvero imbrigliato dall’ordito compositivo.

Il secondo, più breve modello di nouvelle offerto dalla raccolta è titolato «Incontro a Saint-Nazaire», e risale al 1988 come il primo, del quale si ritrovano alcuni elementi, nonché il magnetico personaggio di Lucía Nietzsche, nipote del filosofo o anche soltanto mitomane, o entrambe le cose. Le somiglianze proseguono. Compare un altro scrittore, qui chiamato Stephen Stevensen, che anche stavolta in qualche modo inganna il narratore.

Nel delirio del fool
Le nouvelles sono entrambe strutturate in due atti: prima la colata sbilenca degli eventi, perlopiù celati da rapporti lacunosi, riferimenti che baluginano per poi sottrarsi subito alla vista; poi, da una prospettiva diversa, una finzione, nella quale si rintracciano simmetrie interne, corrispondenze imperfette, e ripetizioni che riconfigurano quanto detto in precedenza, ora interpretabile anche come menzogna calcolata, o come delirio di un folle, o di un fool in quanto archetipo del cantastorie giunto a Piglia da una lunga discendenza shakespeariana, che passa per Faulkner e si trasfigura nelle acque fangose del Rio de la Plata, via Onetti.

«Spesso chi racconta delira», annota Renzi, e dunque non è detto che il resoconto degli avvenimenti e la finzione speculativa – i due «tempi» della nouvelle – seguano un ordine logico e distinguibile. La figura del prisma ritorna. Dal journal di Stevensen, intitolato appunto Diario di un folle: «Diffrazione: forma che assume la vita quando è narrata in un diario personale».

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