Giornate di attivismo per diverse banche centrali. Tutte, salvo quella Giapponese, hanno nuovamente alzato i tassi d’interesse per contrastare l’inflazione. Un’inflazione che sebbene sia in ribasso rispetto alle punte raggiunte lo scorso anno, registra tra marzo e aprile un rialzo in Europa e Italia. Solo negli Usa il tasso d’interesse reale (cioè la differenza tra quello nominale e l’inflazione) è in territorio positivo, mentre in particolare in Europa i tassi restano fortemente negativi.
L’inflazione rimane importante: 5% negli Usa, 7% nel Vecchio continente. D’altronde, come abbiamo già scritto su queste pagine, risulta complicato raffreddare un’economia che ha un’elevata inflazione, ma una bassa crescita. Le banche centrali sembrano strette tra due esigenze contraddittorie del capitale: una politica monetaria restrittiva rischia di spingere alla recessione, contemporaneamente un’inflazione elevata porta in territorio negativo le rendite finanziarie.

A rendere più complicato il quadro è la strana natura di questa inflazione. Il costo delle materie prime energetiche negli ultimi mesi è tornato ai prezzi precedenti lo scoppio della guerra in Ucraina, con un recente parziale rialzo, cosa che conferma come le ragioni dell’inflazione non siano riducibili alla questione energetica, ma abbiano carattere più strutturale.

Accesa preliminarmente dai blocchi produttivi della pandemia e dalla successiva crescita da rimbalzo sostenuta da misure espansive, l’inflazione è stata spinta da un ripiegamento selettivo della globalizzazione che ha reso più costoso produrre alcune merci. La guerra ha rafforzato queste tendenze preesistenti, ma ora ricerche recenti, riprese persino dalla Bce, ci mostrano sempre più il ruolo della crescita dei profitti. In Europa quest’ultimi, al netto dell’inflazione importata dall’estero, hanno contribuito per circa il 60%, crescendo di oltre 9 punti percentuali nel 2022 (i salari solo il 4.7%). Profitti delle aziende dell’energia, ma anche del settore alimentare, agricolo, delle costruzioni, dei trasporti e del turismo. Come ha sottolineato l’ISPI, le aziende nel 2021/2022 hanno potuto alzare i prezzi in un contesto di strettoie e balzi della domanda che mettevano il venditore in una posizione di forza.

La cosa che colpisce è il fatto che in particolare in Europa, negli Usa la dinamica è parzialmente differente, l’inflazione perduri. La spirale prezzi-salari non si è affermata, la crescita è tornata asfittica, per quale motivo l’inflazione permane? Tali domande ne sollecitano altre. Se la crescita è tuttora bassa, dunque la domanda stagnante, com’è possibile che i profitti salgano scaricandosi sui prezzi? Teoricamente la concorrenza dal lato dell’offerta, per soppiantare i potenziali concorrenti, dovrebbe frenare il rialzo dei prezzi.

Non abbiamo una risposta convinta e documentata, ma vogliamo esplicitare il nostro dubbio. Il grado di concentrazione raggiunto dal capitale in diversi settori, e su cui ha scritto analisi di indubbio interesse Emiliano Brancaccio, rende più facile giocare sul prezzo per alzare i margini? La deglobalizzazione selettiva, restringendo alcuni mercati, potrebbe alimentare ulteriormente questa dinamica. In tal caso, se ci trovassimo di fronte ad una inflazione da costi e da concentrazione, l’azione delle banche centrali sarebbe particolarmente spuntata e rischiosa, perché potrebbe anche ottenere una riduzione dell’inflazione, ma pagando un prezzo particolarmente elevato sul lato della crescita. Non solo, sarebbe un ulteriore segnale di un mercato che si fa sempre meno regolatore e sempre più regolato da grandi concentrazioni e alleanze geopolitiche.
Varrebbe la pena chiedersi, persino, se svolga ancora la sua primaria funzione di generare concorrenza tesa ad abbassare i prezzi. L’inflazione è una manifestazione ulteriore della crisi del mito della mano invisibile?