Nel suo atelier d’alta moda affacciato sul salotto di strade che circondano via Veneto a Roma, lo stilista italo-palestinese Jamal Taslaq ricorda quando, da piccolo a Nablus in Palestina, aveva come compagni di banco un bambino cristiano e un samaritano. Nel suo quartiere vivevano molti samaritani, che professano una religione fondata sull’ebraismo delle origini, prima dell’esilio a Babilonia. I bambini giocavano insieme e il sabato, giorno di Shabbat, cioè di riposo, per i samaritani, se c’era qualche problema chiedevano aiuto ai loro vicini.

«Nelle strade di Nablus vivevamo tutti insieme in pace, quando si parla di antisemitismo mi viene da sorridere perché non sanno come la gente vive», dice. «La convivenza è stata rovinata dai coloni, che sono prepotenti, occupano le terre e le strade, e attaccano le persone». Alla metà di settembre, quando è tornato a Nablus, ne ha approfittato per andare a cercare il suo vecchio compagno di scuola nel villaggio in cui nel frattempo si è trasferito, sul monte Gerizìm che i samaritani considerano sacro. Per tutti rivedersi è stata una festa.

foto di un mercato a nablus
Nablus, foto di Andrea Sabbadini

TASLAQ HA TRASCORSO la seconda metà di settembre nella sua città natale, dove i nove tra fratelli e sorelle, sei maschi e tre donne, si sono ritrovati con le rispettive famiglie per il matrimonio della figlia di uno di loro. Un fratello lavora nel Museo di Birzeit, un paio vivono ad Abu Dhabi, uno si è trasferito nelle Marche e gli altri sono rimasti a Nablus. «Non ci vedevamo tutti insieme dal 1990, quando sono partito per l’Italia, purtroppo mancavano solo i miei genitori che non ci sono più», dice.

TASLAQ HA FATTO SCALO ad Amman invece che nella più vicina Tel Aviv perché Israele non riconosce la doppia cittadinanza ai palestinesi e non gli ha concesso il visto come italiano. Si è fermato una notte in albergo nella capitale giordana perché i valichi per i territori occupati chiudono alle 18 e l’orario di arrivo dell’aereo dall’Italia non coincideva con quello di apertura della frontiera.

«Nel fine settimana chiudono a mezzogiorno, per questo sono arrivato in ritardo anche ai funerali dei miei genitori», racconta. Per fortuna questa volta è arrivato in tempo per consegnare il vestito che aveva realizzato per il matrimonio della nipote, alle 2 del mattino del giorno successivo «perché temevamo assalti dai coloni e abbiamo dovuto fermarci e cambiare strada più volte». Un mese più tardi, dopo l’attacco simultaneo dei militanti di Hamas a città e villaggi del sud di Israele e l’inizio della guerra a Gaza, il viaggio sarebbe stato molto più complicato. Ogni giorno si scambia messaggini con la cantante israeliana Noa, che gli manda aggiornamenti su quello che sta accadendo in Israele e a Gaza.

Jamal Taslaq al matrimonio della nipote a Nablus, foto di Andrea Sabbadini
Jamal Taslaq al matrimonio della nipote a Nablus, foto di Andrea Sabbadini

A suo parere, la vita nei Territori occupati della Cisgiordania è diventata più difficile rispetto a quando è andato via, nonostante all’epoca «ci fosse un’occupazione totale, perché non c’era ancora l’Autorità nazionale palestinese (Anp)» e «se ti trovavano con una piccola bandiera della Palestina rischiavi sei mesi di carcere».

Dopo il 7 ottobre, nessuno esce più da Nablus, non di rado quando cala il buio si sente sparare, ci sono frequenti irruzioni dell’esercito e i turisti sono scomparsi «nonostante il centro storico sia uno dei più belli del Medio Oriente». Suo fratello, che ha una grave malattia, non può più andare a curarsi all’ospedale di Gerusalemme.

Jamal Taslaq
Nelle strade della mia città quando ero un ragazzino vivevamo tutti insieme in pace. Chi parla di antisemitismo mi fa sorridere perché non sa come la gente vive

TASLAQ HA LASCIATO NABLUS durante la prima Intifada. Era il 1988, aveva 17 anni e lo ricorda come «un periodo terribile». «Ero costretto a nascondermi in casa perché tutti i ragazzini potevano essere arrestati dall’esercito israeliano anche senza un motivo». Due suoi fratelli gemelli finirono in carcere per sei mesi perché uno di loro fu sospettato di aver partecipato a qualche manifestazione e nel dubbio furono arrestati entrambi. «Non sapevamo neppure dove li avevano portati».

Nablus, foto di Andrea Sabbadini
Nablus, foto di Andrea Sabbadini

In quel periodo molti giovani palestinesi andavano a studiare all’estero. «I nostri genitori ci incoraggiavano a essere cittadini del mondo, consapevoli delle difficoltà di realizzarsi nella nostra terra, anche se a Nablus c’era l’università». Molti venivano in Italia. A Nablus, spiega, vivevano le famiglie più importanti della Palestina, ma la sua non era fra queste. Suo padre riparava le ruote delle macchine e noleggiava impalcature per i cantieri edilizi, mentre sua madre rimaneva a casa. Un suo fratello maggiore si era trasferito nella Romania ancora comunista. Lui fin da piccolo aveva la passione della moda. «Mi è venuta osservando mia madre, che accompagnavo dalla sua vicina sarta e la vedevo discutere di colori e tessuti, di abiti e cerimonie.

Vedere un pezzo di tessuto lungo tre metri e piegato, vederlo trasformarsi in un mese o due e diventare un abito da cocktail o da sera mi emozionava incredibilmente. Così ho iniziato a guardare e leggere i giornali di moda, sognavo di far parte di quel mondo», dice.

PER QUESTO DECISE DI VENIRE in Italia. Aveva appena finito le scuole superiori. «All’epoca avevamo i documenti israeliani e se avevi meno di 18 anni non potevi uscire dai Territori occupati, se invece eri più grande potevi farlo ma potevi rientrare solo dopo nove mesi», spiega. Lui riuscì a partire. Arrivò a Perugia per imparare l’italiano all’Università per stranieri, «ma ci ho resistito solo un mese» prima di andarsene a Firenze per studiare all’Accademia italiana di moda. Nel 1992 si trasferì a Roma, dove cominciò a lavorare in alcune botteghe per «imparare il mestiere».

L’anno successivo tornò per la prima volta a Nablus da quando era andato via. Nel 1998 aprì l’atelier che non ha più lasciato, a un passo da via Veneto. In quasi trent’anni di attività ha vestito «tante donne». Ne elenca alcune: Nancy Brilli, la regina Rania di Giordania, Ornella Muti, Patty Pravo che ha anche fatto sfilare ad Amman, Lina Sastri, Sharon Stone.

LE SUE CREAZIONI SONO delle rivisitazioni in chiave moderna dei ricami rinascimentali e di elementi della moda tradizionale palestinese. Quando la catena svizzera Movenpick lo invitò per una sfilata in un suo albergo a cinque stelle a Ramallah, in Palestina, fece indossare a una modella un abito ispirato ai colori della bandiera palestinese, con un’acconciatura fatta di rami di ulivo, l’albero più caratteristico della sua terra e un simbolo universale di pace.

Jamal Taslaq mentre sistema l’abito da sposa della nipote, foto di Andrea Sabbadini
Jamal Taslaq mentre sistema l’abito da sposa della nipote, foto di Andrea Sabbadini

Nel 2014, in occasione dell’anno internazionale di solidarietà con il popolo palestinese, ha portato al Palazzo di Vetro dell’Onu a New York i colori e i ricami della sua terra. La sfilata avrebbe dovuto svolgersi a metà luglio, ma fu rinviata perché una settimana prima Israele aveva avviato una campagna militare denominata «Margine operativo» a Gaza. L’evento si svolse a dicembre e per quell’occasione Taslaq preparò un abito da sposa ricamato a mano e lavorato con perle ricavate dal legno d’ulivo.

NEL 2021 AVREBBE DOVUTO portare i suoi vestiti anche a Gerusalemme, ma la sfilata fu rimandata a causa della pandemia di Covid e per qualche problema legato alle autorizzazioni.

La sua ultima collezione uomo l’ha chiamata «Eternal collection» ed è un omaggio a Roma, la città che lo ha accolto. A Marrakech, agli inizi di marzo, dice che proporrà un vestito con la sua Palestina.