Nel giorno di Draghi, e in attesa delle decisioni di oggi della Bce sui tassi d’interesse e su eventuali ombrelli protettivi per gli Stati più indebitati, su Palazzo Madama, insieme alla paura del voto, ha aleggiato, ma non è una novità, anche lo spettro dello spread. Draghi resti, anche per lo spread, insomma.

Ma come stanno realmente le cose? Si dice che il rendimento dei titoli di Stato sia il termometro della fiducia che gli investitori nutrono verso un Paese. Più alti sono, meno fiducia c’è. In parte è così. Poi c’è chi vorrebbe far credere che la fiducia nel Paese e la fiducia in Mario Draghi siano la stessa cosa. Ma i numeri che dicono? Draghi prende in mano un paese con un rendimento dei suoi titoli decennali (Btp) allo 0,54% (spread a 103 punti base), oggi il rendimento sullo stesso titolo è del 3,42% (spread da tre mesi sopra i 200 punti base). Come a metà 2020, dopo un anno e mezzo di governo di «unità nazionale». Certo, nel frattempo è arrivata una guerra che sta sconvolgendo l’economia mondiale.

È tornata l’inflazione, con tutto quello che ciò comporta. Nondimeno, se il valore dei nostri titoli scende e il loro rendimento sale, c’è solo una spiegazione: gli investitori lasciano i nostri titoli e ne comprano altri, quelli di Paesi considerati più affidabili. E noi siamo costretti ad allettare gli investitori con rendimenti più elevati (la «remunerazione del rischio»). La guerra c’è per tutti, ma non tutti nella guerra sono percepiti allo stesso modo. E, per quanto ci riguarda, non è secondario che di fronte a questa guerra, nonostante le caratteristiche della nostra economia, abbiamo deciso di mettere l’elmetto.

Ma cos’è che pesa nel giudizio degli investitori? L’idea che il nostro Paese, a causa dei suoi problemi economici strutturali, adesso combinati al rischio che la Russia ci chiuda i rubinetti del gas e aggravati dalle stesse sanzioni contro Mosca, torni in recessione, proprio quando l’allentamento delle misure «non convenzionali» da parte di Francoforte rischia di mettere seriamente in discussione la nostra solvibilità (capacità di rimborsare il debito). Il Paese com’è e come viene raccontato.

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Non solo. L’aumento dello spread di questi mesi ha fatto andare in sofferenza anche le banche, che nei loro bilanci hanno troppi titoli di Stato (in gergo si parla di doom loop). Sono le banche, prevalentemente, che comprano i titoli del debito sul mercato primario, utilizzandoli anche come garanzia per accedere alla liquidità della banca centrale. Ammonta a 400 miliardi di euro il valore dei titoli di Stato che le banche hanno attualmente «in pancia». Se la loro quotazione scende, lo stato patrimoniale degli istituti di credito ne risente. E gli investitori tendono a scappare dai loro titoli. A giugno è stato stimato che i titoli delle banche italiane hanno perso un quarto del loro valore. Non c’era ancora il rischio di elezioni anticipate. Paradosso di un banchiere chiamato a guidare il governo del Paese.

Intanto, le principali agenzie di rating si erano messe già al lavoro. Fitch e Moody’s dicevano che sarebbe stato importante che Draghi rimanesse al suo posto. Per «fare le riforme e risanare il bilancio». In altri tempi si sarebbe detto «per rassicurare i mercati». Non con la sua semplice presenza a Palazzo Chigi, ovviamente. Quando si governa un Paese non basta un «whatever it takes» pronunciato in conferenza stampa per allontanare i problemi. «Risanare il bilancio» significa spendere meno di quanto si raccoglie dalle tasse. Il ritorno all’austerità. Anche perché qualsiasi decisione prenderà la Bce sull’aiuto ai Paesi in difficoltà, questa non prevederà certo pasti gratis. A questo punto, senza Draghi.