È un piacere strano, a tratti ipnotico quello di star seduti in una sala buia ad ascoltare insieme a qualche dozzina di persone una trasmissione radiofonica. È ancor più conturbante quando la voce che esce dalle casse parla l’arabo libanese, o quello maghrebino, o egiziano. Diventa infine un’esperienza semplicemente strana, quando la voce è indonesiana, inglese con l’accento sudafricano, o francese con quello dei Kanak, il popolo autoctono della Nuova Caledonia, una delle ultime colonie francesi nei pressi della Nuova Zelanda.

Lo straniamento ha favorito l’ascolto del particolare mosaico di voci e suoni che è stata la maratona radiofonica in solidarietà a Gaza, iniziata domenica scorsa e conclusasi 24 ore dopo, alla fine di un lungo giro partito dall’università Birzeit a Ramallah, passato da Parigi, Beirut, Betlemme, Cairo, Bandung, Tunisi, attraversando paesi come Uganda, Pakistan e isole dell’Oceano Pacifico e passando per l’Italia grazie a Radio Onda Rossa a Roma, Radio Onda d’Urto a Brescia e Radio Blackout a Torino.

GLI ANIMATORI della radio palestinese Alhara, a Betlemme, coordinatisi con gruppi di militanti parigini, hanno messo assieme una rete costituita da un’abbondante trentina di organizzazioni, media indipendenti, artisti e collettivi vari che ha trasmesso ininterrottamente 24 ore di discorsi, musica, performance e teatro sulla Palestina, con partecipanti da quasi altrettanti paesi. Un ponte-radio sterminato, che testimonia del fatto che la causa palestinese sia pienamente divenuta una questione globale.

Se la sfida tecnica era considerevole, «la cosa veramente potente è stata il fatto che tutto si è svolto in luoghi fisici, con delle persone reali, nonostante i loro discorsi venissero diffusi attraverso le reti digitali», dice Elias Enastas, di Radio Alhara. «Persone reali» che per 24 ore si sono ascoltate a vicenda, discutendo delle difficoltà che ciascun contesto è costretto ad affrontare nell’organizzarsi per fermare il massacro dei palestinesi.

Parigi era un punto di osservazione – pardon, d’ascolto – privilegiato: qui, in una grande sala della Parole Errante (spazio militante a Montreuil, nella banlieue parigina) i partecipanti avevano allestito una mezza dozzina di microfoni per fare in diretta la loro tranche oraria. In attesa della diretta «francese», si poteva ascoltare la radio-maratona grazie all’aiuto di attivisti che traducevano o sintetizzavano i discorsi in provenienza dagli altri angoli del globo. Su di un grande schermo, un foglio Word si riempiva mano a mano che le parole fluivano dagli altoparlanti, concretizzando un esercizio assieme vecchio e nuovo, allo stesso tempo analogico e digitale.

L’esercizio reale, tuttavia, è stato quello dell’ascolto collettivo, improntato all’umiltà: quale altra categoria si può mobilitare, quando dall’etere arriva la parola di una donna da Ramallah, che riflette ad alta voce, piangendo, sulla disgrazia di vivere una nuova Nakba? Lo stesso quando giunge un racconto dell’assedio di Jenin, o si descrive la guerra sui cadaveri praticata da Israele, che tiene i corpi dei caduti sotto chiave, prigionieri – politics of fear, politica della paura, come l’ha definita un attivista nella sala buia parigina.

UN TALE LAVORO di ascolto aveva il vantaggio di stimolare un senso spesso tralasciato, nel corso di questa guerra caratterizzata forse più di altre dall’onnipresenza di foto e video di massacri, corpi carbonizzati, palazzi distrutti. «Sentivamo questo bisogno di uscire dalla dinamica imposta dal flusso ininterrotto d’immagini – dice Zoé, una delle organizzatrici del gruppo parigino – Avevamo bisogno di discutere, di ascoltarci e di farlo assieme».

E non è un caso che una volta lanciata l’idea, di qua e di là del Mediterraneo, «tutti siano stati immediatamente entusiasti. Con un passaparola estremamente rapido abbiamo trovato decine e decine di gruppi interessati».

Con quello che succede laggiù, di ascoltare c’è veramente bisogno. Uno se ne rende conto sentendo le parole di chi vive accanto al massacro. Da Beirut, per esempio, i membri del Free Palestine Front, collettivo formato da attivisti libanesi e siriani di sinistra, raccontano di come i fallimenti delle rivoluzioni arabe e più tardi della thawra libanese del 2019 abbiano condotto migliaia di militanti all’esilio in Europa, svuotando un’intera regione delle sue menti migliori e più determinate, causando un’impasse delle organizzazioni, strette tra i vari partiti settari e la repressione feroce dello Stato.

Questi attivisti tracciano una geografia improvvisata del Mashreq post-rivoluzionario e l’ascoltatore non può che ringraziare, mentre viene informato di come i regimi arabi autoritari mostrino un sostegno alla Palestina di facciata, reprimendo ogni movimento spontaneo e di massa, comprese le azioni più semplici di boicottaggio, che pur con gran fatica mettono in atto i residenti dei campi profughi. Come ad avverare la profezia, il giorno dopo si sono fatti manganellare dalla polizia durante una manifestazione davanti all’ambasciata egiziana.

GLI ECHI radiofonici rimbalzano appunto fino in Egitto, dove i giornalisti del media indipendente Mada Masr hanno riunito avvocati, medici e psicologi per discutere del diffuso sentimento d’impotenza che si è impadronito del movimento locale. Due generazioni di militanti raccontano la «vergogna», il «dolore» causati dalla situazione presente, ma è soprattutto una militante più giovane a far accapponare la pelle con il racconto della propria prigionia e della repressione che accompagna il paese dal 2011, soffocando ogni gesto militante in direzione di Rafah. Questo è il senso proprio dell’assedio a Gaza, riassume un gazawi scampato al massacro, «impedire di uscire, ma anche di entrare, di vedere, di raccontare».

Appena prima della mezzanotte, risuona il jingle di Radio Djiido, la radio indipendentista dei Kanak. Uno pensa: laggiù sono le 9 del mattino. La presentatrice racconta di come Israele sostenga alcune sette evangeliche che promuovono un posticcio legame di fratellanza tra «popoli autoctoni».

I Kanak, dice la responsabile del sindacato independentista dal microfono, non devono farsi fregare, dalla Francia subiscono un sistema di dominazione e discriminazione che ha una matrice simile a quello che subiscono i palestinesi. Tutto il senso della radio-maratona è qui, espresso dalla radio di un popolo oppresso dall’altro capo del pianeta: lo spettro (FM) della solidarietà che si aggira sul pianeta, da un fuso orario all’altro.