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Lo scandalo dell’ingiustizia climatica

La ventiquattresima conferenza quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si è aperta con il governo padrone di casa, quello polacco, che ha ribadito che il suo impegno nel raggiungere […]

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 13 dicembre 2018

La ventiquattresima conferenza quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si è aperta con il governo padrone di casa, quello polacco, che ha ribadito che il suo impegno nel raggiungere gli obiettivi comuni di riduzione delle emissioni andrà di pari passo con la centralità del carbone come fonte energetica primaria del paese. «Il futuro verde della Polonia è il carbone» hanno dichiarato i suoi rappresentanti in apertura dei lavori.

Potrebbe sembrare una simpatica provocazione se non fosse che, a conferma del messaggio, nello stand polacco nel palazzo congressi di Katowice, sede del meeting, campeggia lo slogan «Black to green». In sostanza il nero diventa verde e il carbone diventa la strada per un’energia sostenibile.

Ci sarebbe da farsi una risata. Il problema però è che questo episodio rende perfettamente l’idea della situazione che si sta vivendo in questi giorni a pochi chilometri dalla città natale di Giovanni Paolo II. I rappresentanti dei governi di 200 Paesi del mondo, praticamente tutti, stanno discutendo le strategie e i vincoli per applicare l’accordo di Parigi, siglato nel 2015 in occasione della COP 21. Un accordo che sembrava finalmente aver ottenuto l’approvazione e l’impegno di tutti gli stati ONU e che sembrava essere il punto di svolta nella lotta al cambiamento climatico e al riscaldamento globale. Sembrava fatta allora, che poi è solo tre anni fa. L’accordo politico c’era, si trattava soltanto di individuare gli strumenti tecnici e giuridici per realizzarlo. Tutto in discesa o quasi, insomma.

Peccato che, da quel 2015, siano successi alcuni fatti che hanno messo in crisi il processo intero costringendoci oggi ad assistere a una disperata corsa a qualcosa di concreto, anche minimo, che probabilmente non vedrà la luce. Paradossalmente verrebbe da pensare che Parigi abbia quasi portato sfortuna. Trump negli Stati Uniti e Bolsonaro in Brasile hanno, uno ufficialmente l’altro per il momento solo nelle intenzioni, sfilato due dei paesi più potenti e grandi del mondo dalla lista dei firmatari. Nello stesso tempo, gli impegni che gli Stati si erano volontariamente assunti per ridurre le emissioni sono stati da tutti riconosciuti come insufficienti per ottemperare all’aumento massimo di 3 gradi centigradi definito a Parigi. Ultimo e non trascurabile particolare, gli effetti concreti del clima che cambia stanno ovunque manifestandosi in maniera sempre più forte e impattante. Questo mix di inazione, addirittura negazionismo (Trump pare ancora convinto che il cambiamento climatico sia un complotto dei cinesi per fermare la locomotiva USA) misto a reale urgenza, rende il meeting polacco ancora più delicato e difficile. Quel che è certo, come ha dichiarato in apertura il Segretario Generale dell’ONU Guterres, è che le questioni in gioco sono questioni di vita e di morte. E di giustizia, aggiungiamo noi. Perché i più colpiti dai cambiamenti climatici sono i più poveri, che sono anche coloro che meno di tutti hanno contribuito in termini di emissioni e di deterioramento dell’ambiente. Ancora una volta siamo di fronte a una questione di ingiustizia. Il prezzo dell’economia turbocapitalista e predatoria del nord del mondo viene pagato in massima parte dai cittadini di Stati poveri del sud del mondo, ai quali poi viene anche negato il diritto di migrare e di lasciare le proprie terre in cerca di fortuna. Probabilmente dalla COP 24 di Katowice non arriveranno le decisioni cruciali che molta parte del mondo sta aspettando con ansia. Bisognerà allora chiedersi noi, come cittadini, che cosa potremo fare per dare un segnale forte del fatto che non si può più aspettare e che la nostra pazienza è finita.

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