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L’isola che forse non c’è, Venice Immersive

L’isola che forse non c’è, Venice Immersive

Venezia 79 Per la realtà virtuale al Lido, i media immersivi al Lazzaretto, gli artisti a San Marco

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 27 agosto 2022

Torna sull’isola del Lazzaretto Vecchio al Lido, laddove furono le prime quattro edizioni, lo spazio dedicato ai media immersivi della Mostra del cinema. Se negli ultimi due anni l’Isola stessa era stata ricostruita tecnologicamente, visitabile quindi solo in modalità online e attraverso gli Oculus, la 79 edizione della Mostra riporta questa tecnologia anche a una dimensione espositiva più classica in cui con maggiore facilità gli addetti ai lavori potranno incontrare il pubblico così come le opere la curiosità, anche occasionale, di visitatrici e visitatori.

Se questa novità è conseguenza di una più ovvia riconfigurazione degli spazi pubblici post emergenza pandemica, la vera novità di questa edizione è la scelta di allargare la selezione alle cosiddette opere di Extended Reality (XR), progetti che abbracciano, mescolano e sperimentano una varietà maggiore di combinazioni tecnologiche. Non più solo realtà virtuale, dunque, ma in modo più inclusivo la Mostra si apre a tutti i mezzi d’espressione creativa legati alle tecnologie immersive: dalle opere a 360 gradi, alle istallazioni, dalle live performance fino ai mondi virtuali, senza limiti di durata. Anche il nome della sezione, infatti, muta in Venice Immersive.

Trenta progetti inediti in concorso, dieci fuori concorso che come di consueto sono frutto di una selezione tra i progetti del 2021, tre lavori prodotti dalla Biennale College e un Evento Speciale, affianco alla Venice Immersive Island che, senza abbandonare gli sforzi degli ultimi due anni, porterà avanti le sperimentazioni sui mondi virtuali con l’accessibilità online sulla piattaforma VRChat.

Sarà in programma in questa sezione We met in Virtual Reality di Jose Hunting, primo documentario interamente girato all’interno di VRChat, vale a dire all’interno della stessa piattaforma di realtà virtuale che, a ben vedere, sta iniziando ad assumere i tratti di un ambiente dalle qualità fotogeniche. Un ambiente, dunque, – non più «solo» una tecnologia di supporto – con le sue comunità, osservati in presa diretta come nel più classico dei metodi documentari. Relazioni tra avatar in mondi virtuali creativamente progettati in cui l’intimità degli incontri esplosa con la complicità dell’isolamento forzato dalla pandemia viene per la prima volta registrato, così come all’alba del secolo della regia il movimento delle foglie al vento trovava nuova dignità impresso su pellicola. Se il metaverso è una delle direzioni produttive di questa tecnologia, prova ne è il recente lancio europeo di una sua proto versione (Horizon World) vantata dal CEO di Meta, l’intervento di We met in Virtual Reality sembra piuttosto indagare la struttura simbolica e insieme materiale di una delle molteplici piattaforme che già centinaia di migliaia di persone popolano.

L’Isola di fronte al bacino di San Marco, raggiungibile facilmente dal Lido con un apposito battello, invece, ospita i mondi immaginari – e questo è proprio il caso di dirlo – di artiste e artisti prodotti da diciannove paesi. Una geografia espressiva composta da quarantatrè progetti che il pubblico potrà cogliere nel suo insieme durante i dieci giorni di Mostra, esperienza difficile da recuperare altrimenti. Questa versione Immersive restituirà progetti covati e prodotti in questi recentissimi anni di grande scoperta e uso intensivo delle tecnologie immersive, legate ormai non più solo all’orizzonte del graming bensì alle nuove strategie estensive della realtà.

Nella selezione internazionale delle opere XR c’è un esempio di questo straordinario potenziale euristico: Kingdom of Plants with David Attenborough di Iona Mcewan. Questa autrice esplora il potenziale narrativo della VR combinando time-lapse, micro-live action e grafiche elaborate al computer e portando il pubblico nella temporalità ciclica delle piante, sovvertendo la scala d’osservazione a cui è abituato, attraverso la guida di una delle voci a cui gli amanti del documentario sui regni animali e vegetali è più affezionato.

Viaggi immaginari che popolano anche le traiettorie di molti progetti inediti del concorso. Vale per Okawari di Landia Egal e Amaury La Burthe, presentata come prima opera in VR e insieme come installazione esperienzale della durata di quarantacinque minuti, in cui si è invitati a sedersi difronte a pietanze della tradizione giapponese izakaya. Non sappiamo oltre di questo progetto ma i due creatori hanno rispettivamente alle spalle lavori eccellenti come Umami, già proemiato nell’edizione veneziana del 2018, e Notes on Blindness: Into Darkness, opera sulla cecità che nel 2016 contribuì ad alimentare l’interesse generale per questo nuovo medium.

Attira l’attenzione anche il progetto Ascenders di Jonathan Astruc e Jonathan Tamene, definito come opera di «hyper reality», ossia realtà virtuale che utilizza effetti ambientali. Un’odissea di contemplazione che porta più partecipanti a scoprire la VR, come luogo e strumento del suo abitare. Torna in concorso anche Celine Tricart con Fight Back. Già vincitrice del Leone d’Oro per la miglior esperienza immersiva nel 2019 con The Key e presidente di giuria per la stessa sezione nel 2020, presenta quest’anno un progetto sull’autodifesa femminile come strategia contro la violenza di genere. Dei progetti in concorso sono ormai numerosi quelli per cui si può già dichiarare interesse, non foss’altro per la presenza di filmmaker dal profilo che potremmo già definire autoriale.

Combinando performance, realtà virtuale e mondo della moda, Dazzle: a Re-assembly of Bodies di Ruthe Gibson, Bruno Martelli, Alexa Pollmann e Bine Roth, è invece un’installazione immersiva che unisce la realtà fisica del mondo della danza a quella immaginaria della VR. Una coreografia collettiva, inclusiva e multidimensionale – come viene definita nella presentazione – resa possibile attraverso appositi indumenti che, indossati dal pubblico, oltre a rompere il muro immaginario della quarta parete, più radicalmente interrogano quella logica binaria di cui i corpi, loro malgrado, spesso devono essere incarnazione.
Come salti nel vuoto, molte opere mirano a interferire con il concatenamento abituale che governa il nostro rapporto con la realtà. All that Ramains di Craig Quintero viene presentato, infatti, come una meditazione sulle evidenze della realtà che confortano il nostro rapporto con il mondo e sullo stupore che talvolta irrompe difronte a qualcosa di apparentemente ordinario. Attraverso il coinvolgimento sensoriale, quest’opera interattiva, figlia di anni di ricerca tra arte scenica e media immersivi, intende interrogare la familiarità con le cose che consideriamo «vere». Nuove forme di arte digitale che tornano a questionare il rapporto tra corpo e immagine, distanza e prossimità e, su tutti, il concetto stesso di realtà. Esattamente un secolo fa, il pittore Robert Delaunay affermava poeticamente: «sono a Pietroburgo nel mio letto; a Parigi i miei occhi vedono il sole». Anche lui, sebbene con altre tecnologie, sperimentava la scomposizione dei volumi, dei colori, del movimento.

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