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L’Iraq ostaggio di Iran e Usa: Trump manda 750 marines

L’Iraq ostaggio di Iran e Usa: Trump manda 750 marinesMiliziani filo-iraniani e i loro sostenitori durante l’assalto all’ambasciata Usa a Baghdad – Ap

Golfo Le milizie sciite, protagoniste della repressione delle mobilitazioni popolari, si ritirano dall’ambasciata americana a Baghdad, presa d'assalto martedì. Tensione alle stelle: nuove truppe, la risposta della Casa bianca a due giorni di protesta filo-iraniana. A uscirne con le ossa rotte è il governo iracheno

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 2 gennaio 2020

Si sono ritirate ieri pomeriggio le centinaia di miliziani sciiti e sostenitori delle Unità di mobilitazione popolare filo-iraniane che il 31 dicembre hanno assaltato l’ambasciata statunitense in piena Green Zone a Baghdad. Due giorni di lanci di pietre, incendi alla reception della sede diplomatica, bandiere gialle delle milizie sciite issate sul tetto e un presidio con tende e viveri a sostegno di chi era accampato lungo il perimetro dell’edificio.

E due giorni di lancio di lacrimogeni e proiettili di gomma da parte dei soldati Usa (sei feriti, 50 intossicati) e dell’ovvia rappresaglia americana, l’annuncio dell’invio di altri 750 marines dal Kuwait all’Iraq, a tutela degli interessi statunitensi.

Eppure l’escalation che ha avuto come teatro una Baghdad molto diversa dal passato – una capitale rinnovata dalla mobilitazione popolare che nulla ha a che vedere con la protesta filo-iraniana di ieri e l’altro ieri – è stata innescata proprio dagli Stati uniti e dal bombardamento, la scorsa domenica, di postazioni delle Kataib Hezbollah tra Iraq e Siria: 25 miliziani uccisi, secondo la Casa bianca in risposta alla morte di un americano causata da un missile su una base a Kirkuk (le Kataib Hezbollah hanno negato responsabilità).

I raid Usa erano chiaramente diretti a colpire lo sponsor delle Brigate, l’Iran, con cui la tensione è alle stelle dall’ingresso alla Casa bianca di Donald Trump. E il cortocircuito è stato immediato: dopo i funerali dei miliziani, martedì, centinaia di sostenitori delle milizie sciite (fattesi partito ed entrate in parlamento dopo aver partecipato alla lotta contro l’Isis nell’ovest del paese) hanno marciato verso la blindatissima Green Zone, nel cuore di Baghdad, e assaltato l’ambasciata statunitense.

L’amministrazione Trump ha sfruttato subito l’occasione, centrando l’obiettivo che si era probabilmente prefissata quando ha avviato l’ultima escalation: mandare altre truppe in Medio Oriente. Così reagisce Washington, silente come il resto della comunità internazionale sul massacro di manifestanti iracheni in corso dal primo ottobre scorso (almeno 511 le vittime accertate), di cui tantissimi uccisi non dalla polizia o l’esercito iracheni ma dai miliziani sciiti che martedì marciavano sulla Zona Verde.

Sono loro che da mesi usano i lacrimogeni come proiettili, che hanno compiuto massacri come quello del 7 dicembre poco a nord di piazza Tahrir, epicentro della mobilitazione popolare. E sono loro, o meglio anche loro, il bersaglio delle centinaia di migliaia di iracheni che da Baghdad al sud sta manifestando incessantemente contro la corruzione, il sistema settario che governa il paese, le influenze palesi e divisive di Iran e Stati uniti. Per queste rivendicazioni e per il sacrificio di 511 persone nessuno si è mosso, tanto meno Washington, corresponsabile del fallimento dello Stato iracheno.

Ieri la situazione sembrava tornare alla normalità nel centro di Baghdad dopo che le stesse Unità di mobilitazione popolare hanno ordinato alla folla di ritirarsi, a seguito dell’appello delle istituzioni governative e soprattutto quello dell’Ayatollah Khamenei, suprema autorità sciita irachena, che ha duramente condannato l’attacco americano.

Ma la tensione resta altissima. Trump ha usato Twitter, come è solito fare, con toni da clan mafioso per minacciare Teheran di rappresaglia: «L’Iran sarà considerato pienamente responsabile per le vite perse e i danni a una qualsiasi delle nostre strutture. Pagherà un prezzo alto! Non è un avvertimento, ma una minaccia. Buon anno!».

Non poteva certo ringraziare i manifestanti filo-iraniani per aver aiutato i suoi piani di rafforzamento della presenza statunitense nella regione: ai 5.200 marines già in Iraq, ai 14mila nel Golfo e alle navi da guerra dispiegate a poca distanza dallo stretto di Hormuz, si aggiungeranno altri 750 soldati, probabilmente provenienti dal Kuwait.

A uscirne con le ossa rotte è il governo iracheno, vaso d’argilla tra due vasi di piombo: da una parte i finanziatori del sistema politico interno e gli addestratori delle sue forze armate, gli Stati uniti, e dall’altra l’Iran governante-ombra che gestisce il paese vicino proprio attraverso le milizie sciite dentro e fuori il parlamento.

Rischia anche la mobilitazione popolare, stoica e genuina: la rivoluzione dei giovani iracheni spaventa tutti, Baghdad, Teheran, Washington perché, comunque finisca, sta trasformando intere generazioni. A chi vuole un Iraq statico e disfunzionale, corrotto e facilmente manipolabile, la rivoluzione non può che far paura.

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