L’Iran dei “duri” nel grande gioco della sfida alla Cina
Il voto a Teheran Le conseguenze interne e internazionali della vittoria di Ebrahim Raisi alle presidenziali. E della concentrazione di tutti i poteri nelle mani degli ultraconservatori
Il voto a Teheran Le conseguenze interne e internazionali della vittoria di Ebrahim Raisi alle presidenziali. E della concentrazione di tutti i poteri nelle mani degli ultraconservatori
Con queste elezioni l’Iran rientra nel grande gioco delle sfide globali. Tutto il potere è in mano ai duri e puri della repubblica islamica come mai nel recente passato: questo significa la scontata vittoria alle presidenziali di Ebrahim Raisi. Gli ultraconservatori avevano già ottenuto la maggioranza alle parlamentari dell’anno scorso, controllano già saldamente il potere giudiziario, sono sotto l’egida militare dei pasdaran e la direzione della Guida Suprema Ali Khamenei, ultima istanza di ogni decisione. Con Raisi adesso chiudono il cerchio del potere.
Due le conseguenze, una interna, l’altra sul piano internazionale. La Guida Suprema, 82 anni, ha piazzato agevolmente alla presidenza, ovvero alla direzione del governo, Raisi, già capo del potere giudiziario, che viene indicato anche come suo possibile successore. Moderati e riformisti, che avevano come punto di riferimento il presidente uscente Hassan Rohani, sono stati spazzati via ancora prima del voto con la squalifica dei loro candidati da parte del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. Mai come questa volta il risultato era scritto in anticipo, mai come oggi l’elettorato è arrivato alle urne così disilluso, colpito dalla crisi economica, dalla pandemia e dalla mancanza di ogni cambiamento.
Cosa significa la vittoria di Raisi per il negoziato sul nucleare incorso a Vienna? C’è chi sostiene che un governo in pugno ai duri avrà maggiori margini di manovra rispetto a quello del moderato Rohani che dopo due mandati e otto anni in carica uscirà definitivamente di scena il 3 agosto. Era stato Rohani insieme al ministro degli esteri Zarif a concludere l’accordo del 2015 con l’amministrazione Obama che aveva portato alla momentanea cancellazione di parte delle sanzioni economiche e finanziarie. L’intesa, nonostante il via libera della Guida, allora era stata fortemente criticata dagli ultraconservatori e Rohani vene poi accusato di essersi fidato troppo degli Stati uniti. Quell’accordo, su pressione di Israele, è stato poi strappato da Trump nel 2018 che nel gennaio 2020 ha ordinato l’uccisione con un drone del generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad.
Ora le chance di un’intesa a Vienna possono diventare più concrete. Ma ci sono due possibilità. La prima che il negoziato – cui gli Usa non partecipano direttamente – venga accelerato da Rohani prima della sua uscita di scena. La seconda che tutto venga rimandato a dopo l’insediamento di Raisi. In questo momento le parti sono sotto pressione: lo è Rohani, ormai al passo d’addio. Ma anche Biden, che un’intesa la vorrebbe alle condizioni degli Usa e deve tenere conto delle enormi pressioni esercitate dagli alleati mediorientali di Washington, da Israele alle monarchie del Golfo – alcune di queste dentro al Patto di Abramo – che chiedono agli Usa risultati concreti sul programma missilistico di Teheran e il contenimento delle milizie filo-iraniane nella regione, dall’Iraq alla Siria, dagli Hezbollah libanesi agli Houthi in Yemen.
Che quest’ultimo sia un punto chiave lo dice il fatto che gli israeliani quasi ogni giorno bombardano le postazioni dei pasdaran in Siria, notizie che di solito sui media vengono passate in secondo piano ignorando che Tel Aviv conduce la sua guerra strisciante quotidiana all’Iran sia con i raid aerei che con l’infiltrazione di agenti e gli attentati ai gangli del sistema iraniano (alcuni dettagli sono stati rivelati recentemente in tv dall’ex capo del Mossad Yossi Cohen).
L’ala dura del regime è di fronte a una scelta, una strategica e l’altra tattica. Quella strategica è stabilire se conviene o meno arrivare a un’intesa per farsi togliere le sanzioni, cosa che non è poi così scontata. Ma anche la scelta tattica potrebbe essere interessante per il nuovo governo Raisi. Khamenei, Raisi e i pasdaran potrebbero decidere di lasciare fare l’accordo a Rohani prima che esca di scena in modo da far ricadere su di lui la responsabilità dell’intesa per poi godere delle ricadute economiche positive derivanti dalla cancellazione o dall’alleggerimento delle sanzioni. L’amministrazione Biden, a sua volta, potrebbe essere tentata da un accordo con l’Iran nell’ottica di una riduzione dell’impegno americano in Medio Oriente ma anche perché Teheran potrebbe rientrare sui mercati petroliferi e finanziari internazionali sfuggendo in parte agli accordi con la Cina, oggi vitali per la sopravvivenza della repubblica islamica.
In primavera Pechino e Teheran hanno cambiato passo, firmando un accordo di cooperazione strategica globale di 25 anni, nell’ultimo anno e mezzo l’Iran ha venduto alla Cina in media oltre 300mila barili di petrolio al giorno mentre il patto di cooperazione potrebbe fornire un afflusso di capitali cinesi per 400 miliardi di dollari alle agonizzanti industrie iraniane. Senza contare che nel 2019 Cina, Iran e Russia hanno anche condotto esercitazioni militari congiunte senza precedenti nel Golfo di Oman e nell’Oceano Indiano, una mossa che ha sollevato forti preoccupazioni di Washington.
Ecco perché l’Iran rientra nel «grande gioco», lanciato da Biden ai vertici del G-7 e della Nato, della sfida globale con la Cina. E quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare…
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento