Cultura

Liquide sponde di piacere

Liquide sponde di piacere

PER TERRA E PER MARE Nel 1942 Marguerite Yourcenar e Grace Frick giungono a Mount Desert, isola selvaggia del Maine dove comprano una piccola abitazione, poi ribattezzata Petite Plaisance. È qui che la scrittrice terminerà «Memorie di Adriano»

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 4 agosto 2016

Quando, per la seconda volta nella sua vita, Marguerite Yourcenar varca l’Atlantico per recarsi negli Stati Uniti, non pensa certo di essere in procinto di imprimere alla sua esistenza una svolta radicale. L’invito, quel «Perché non vieni?» spedito da Grace Frick appena accettato un posto all’università di New York, l’aveva colta in Francia nel 1939 proprio nel momento in cui la dichiarazione di guerra rendeva impossibile il suo progetto di stabilirsi in Grecia. Yourcenar era già stata da poco negli Usa e proprio con Grace, la studentessa americana incontrata nel febbraio del ‘37 all’hotel Wagram di Londra (dove Marguerite Yourcenar si era recata per discutere con Virginia Woolf la traduzione de Le onde) con la quale aveva avuto una fuggevole quanto significativa relazione. A Grace infatti aveva dedicato Le coup de grâce, il romanzo-vendetta nei confronti di André Fraigneau uscito all’inizio di quello stesso 1939.

Di quel decennio che stava per iniziare con quel piroscafo preso nel novembre del 1939, Yourcenar racconterà nella lunga intervista rilasciata a Matthieu Galey parecchi anni dopo (Les yeux ouverts, 1980), come si fosse sentita in difficoltà dovendo per la prima volta nella sua vita guadagnarsi da vivere per evitare di essere mantenuta da Grace la cui famiglia già la guardava dall’alto in basso; la soluzione era stata accettare un incarico di insegnamento in un college di sole ragazze, il che comportava giornate impegnative ed estenuanti che la lasciavano troppo stanca la sera per potersi mettere a scrivere seriamente; da lì l’abbandono, a parte qualche traduzione e un paio di racconti, di qualsiasi ambizione letteraria.

Attraccare nella nebbia

La provvisorietà della sua vita americana si protrasse per tutti gli anni di guerra mentre le notizie da Parigi arrivavano facendole sembrare interminabile l’attesa della pace e di un ritorno a casa. Nel 1942 un amico invitò lei e Grace a passare alcune settimane d’estate in un’isola del Maine, Mount Desert, a pochi chilometri dal confine canadese, un’isola selvaggia che il clima rigido dell’inverno ricopriva di neve per diversi mesi all’anno, in cui ci si spostava a cavallo tra un villaggio e l’altro perché non c’erano altri mezzi di locomozione, disseminata di capanne di pescatori eppure già scoperta dai Rockefeller e da altri membri della upper class di Boston e Filadelfia che lì avevano fatto costruire le loro dimore estive.

Mount Desert fu la scoperta di un’altra vita possibile: «la natura, che è bellissima, e lo era ancora di più in quegli anni. E poi la vita. La si coglie al suo livello più essenziale, nella forma più scarna, più scevra di letteratura». In quel lungo periodo di vacanze sull’isola in case in affitto («qui ho trovato invece il silenzio della natura, i gridi degli uccelli notturni, la sirena di un piccolo mercantile che attracca nella nebbia»), Yourcenar verifica su di sé un passaggio importante, tanto più importante in quanto significherà una modificazione profonda nel suo modo di pensare alla scrittura.

«Se fossi rimasta in Europa, o anche se fossi rimasta in Grecia nel 1940, avrei finito con l’aderire sempre di più agli aspetti formali della letteratura, perché l’ambiente in cui vivevo era estremamente letterario, e sarei rimasta più legata al passato, perché i luoghi stessi erano tutti legati alla leggenda antica». Sull’isola la natura e il profondo rapporto con essa che si schiude davanti ai suoi occhi accenderanno in lei l’interesse per la vita delle piante e degli animali, per la vita stessa della terra e per i minerali che la compongono. La geologia che prende il sopravvento sulla storia (soprattutto se si tratta di quella di un’Europa che sembra sempre più persa nella guerra e distante), così Yourcenar descriverà quel passaggio che chiude il decennio.

Ciò che è in ballo non è solo la decisione di rimanere negli Usa anche a guerra finita e la conseguente richiesta di cittadinanza americana; ma anche e soprattutto il passaggio intimo e privatissimo (Yourcenar del resto ha secretato tutta la corrispondenza con Frick e i diari fino al 2037) costituito dall’accettare finalmente che la relazione con Grace diventi un progetto di vita. L’acquisto comune di una piccola casa sull’isola di Mount Desert sancirà il nuovo assetto che Marguerite e Grace pensano di dare alla propria esistenza. La casa, con un giardino in cui vengono a giocare gli scoiattoli e un bosco sul retro, sarà chiamata Petite Plaisance e lì Marguerite si troverà nel giro di soli tre anni a riprendere in mano e terminare Memorie di Adriano, la sua opera maggiore.

La passione dei reperti

Petite Plaisance è una costruzione che risale al 1866 circa, di legno dipinto di bianco, su due piani, con un piccolo portico, otto o dieci piccole stanze, quasi una dentro l’altra, con tre stufe che producono il calore necessario e per le quali Yourcenar non acquista legna per risparmiare la foresta, utilizzando invece gli arbusti secchi che raccoglie e i «pochi alberi che devono essere abbattuti». Sogna negli ultimi anni della sua vita di aggiungere un piccolo impianto di riscaldamento solare. Il mobilio, dice sempre nell’intervista a Galey, «è una miscellanea; c’è un po’ di tutto: quello che è sopravvissuto a due guerre e a molti viaggi, e quello che appartiene all’amica che ha acquistato la casa insieme a me». L’estremo riserbo col quale Yourcenar parla di Grace Frick, dopo quasi quarant’anni di vita comune si spiega con il particolare momento che la coppia stava vivendo: a Grace mancavano ancora pochi mesi di vita e Marguerite si confrontava con l’idea di un avvenire solitario.

Dentro quelle stanze dalle pareti foderate di libri e dagli scaffali nel soggiorno pieni di resisto in cui Marguerite e Grace catalogavano con estrema precisione e con una calligrafia minuta una serie infinita di fotografie su reperti archeologici, statue e monumenti dell’antichità, si può percepire ancora il sentimento fortissimo che impregnava di sé chi in quella casa viveva, la nostalgia cioè verso un mondo scomparso eppure così talmente vivo da essere in grado di dar voce ai sogni, si chiamassero Antinoo, Adriano o Zenone. E le finestre guardano ancora oltre la spiaggetta lì a poche centinaia di passi, oltre il tempo, oltre l’oceano che sembra essere assieme separazione e sentiero acqueo verso l’Europa.

La doppia forma dell’esilio e dell’autoisolamento appartiene ai rapporti tra Marguerite Yourcenar e Mount Desert. Per tutti gli anni della sua permanenza in territorio americano Yourcenar difese ferocemente la sua patria, che non era il Belgio dove era nata, o la Francia dove aveva vissuto, o la Grecia dove aveva pensato di stabilirsi. Lei apparteneva alla letteratura francese, lei era la lingua francese, lì viveva immersa, in quelle sonorità, in quei giri sintattici, in quei compiacimenti grammaticali. A Petite Plaisance si parlava francese, a meno che un ospite proprio non fosse in grado di capirne alcunché; si leggeva francese; si discuteva in francese con buona pace di Grace; si pensava nella lingua di Racine. Il francese era la lingua di quell’isola nell’isola che era Petite Plaisance.

Margini estremi

«Le isole mi sono sempre piaciute molto: Eubea, Egina, Capri – che è assai meno turistica di quanto non si creda, quando si vive in un angolino sperduto. Ogni isola è un piccolo mondo a sé, un piccolo universo in miniatura. (…) E poi il mare dà una sensazione di spazio. Ci si sente come alla frontiera fra l’universo e il mondo degli uomini».
E veramente Petite Plaisance sembra essere posta su un margine estremo, stabile nel suo essere circondata dal verde, eppure a pochi passi dalla riva oceanica che si apre apparentemente tranquilla, apparentemente addomesticata, così come apparentemente addomesticata sembrava Marguerite nella sua lunga convivenza con Grace (ma gli uragani ripresero il sopravvento dopo la morte di lei).
La riva così prossima, quel confine tra terra e acqua che segna il margine dell’umano, potrebbe aver costituito per l’autrice di Feux la misura da imporre ai propri spazi interiori dilatati in pensieri immensi. Margine che nel caso di Yourcenar separava con un grado elevatissimo di emozione inespressa l’universo dal mondo degli uomini, quel mondo che per lei era il mondo greco-romano, tenuto a distanza (la misura) oltre la linea liquida dell’orizzonte.

3 – continua

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[Tutte le citazioni di Yourcenar presenti nell’articolo sono tratte da Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti. Conversazioni con Matthieu Galey, Bompiani, 1989]

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SCHEDA

Se Mount Desert, scelta come abitazione e rifugio da Marguerite Yourcenar e Grace Frick sembra raccontare una precisa variante della dialettica tra esilio e identità, è pur vero che le narrative insulari si sono spesso prestate a indagare i rapporti che la questione dell’identità intrattiene con l’immaginario. È questo il tema di Isole. Confini chiusi orizzonti aperti (a cura di Monica Luongo e Giuliana Misserville, per Iacobelli editore). I saggi del volume, che prende spunto da un seminario della Società italiana delle letterate, offrono una lettura femminista del tema dell’isola in un confronto serrato con quanto elaborato dalla narrativa a firma maschile. A partire dal mito bifronte dell’isola di Itaca, con le varie riscritture della figura di Ulisse e di quella di Penelope, passando per le isole shakespeariane; e poi per Avalon; per le isole di Utopia e di Ellis Island; per i Caraibi coinvolti da un doppio movimento che vede le tradizioni culturali europee metabolizzate e riutilizzate al punto da tornare a costituire un modello per buona parte del pensiero critico europeo; e, tornando al Mediterraneo, il tramonto della civiltà corsa nei romanzi di Marie Susini o le isole di Fabrizia Ramondino o Lalla Romano. La proposta dell’insularità come identità dell’uomo contemporaneo, su cui chiude il volume, è un esercizio più utile che mai proprio oggi che le nostre certezze di europei sembrano spazzate dal sentirci una fortezza malandata e assediata dagli stravolgimenti della cronaca quotidiana. Seguendo le considerazioni del filosofo francese Jean-Toussaint Desanti «La pelle che ci avviluppa, è la nostra isola, la nostra insularità. (…) Siamo tutti insulari in senso proprio. (…) Siamo tutti sempre in questo rapporto allo stesso tempo di esclusione e di inclusione. L’interiore e l’esteriore si tengono. La nozione di frontiera deve essere pensata interamente, non è una linea di separazione, ma una relazione mobile».

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1 – Iain Chambers, La schiavitù galleggiante

2 – Marco Bascetta, Il naufrago testimone

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