La comunità internazionale e l’opinione pubblica sanno da anni che i centri di detenzione dove in Libia vengono trattenuti i migranti sono dei luoghi infernali: tanto i centri «regolari», gestiti dalla Guardia costiera libica (Libian Costguard, LCG) e più in generale dalle autorità del governo libico riconosciuto a livello internazionale; quanto e ancora di più i centri irregolari, gestiti dalle varie milizie operanti sul territorio. Le torture più atroci sono all’ordine del giorno, tanto da richiamare secondo molti commentatori le atrocità dei lager nazisti.
I nostri Tribunali già si sono occupati delle condizioni dei campi libici. Il processo più noto è quello celebrato presso la Corte d’assise di Milano, che ha condannato all’ergastolo un cittadino somalo riconosciuto colpevole di una serie di terribili reati durante il periodo in cui prendeva parte alla gestione del campo per migranti di Bani Walid. Condanna confermata pochi giorni fa dalla Cassazione, con conseguente riconoscimento in via definitiva della gravità di quanto avviene nei campi libici.

Nonostante quindi la realtà dei campi libici sia a tutti ben nota, il governo italiano, a far data in modo particolare dal 2017, ha individuato nella collaborazione con le autorità libiche (e in particolare con la Guardia costiera libica) un elemento decisivo della propria politica migratoria. Il sostegno alla Gcl con strumenti tecnici e finanziari, oltre che logistici e operativi, è una costante della politica italiana degli ultimi anni. Le nostre autorità sanno che i centri di detenzione libici, ove la Gcl riconduce i migranti soccorsi in mare, sono luoghi di inferno, ove si commettono le peggiori atrocità. Tuttavia esse finanziano e sostengono le operazioni con cui i migranti che finalmente sono riusciti a fuggire da tali centri, vengono ricondotti all’inferno da cui provenivano.

È possibile che si ponga una questione di responsabilità penale dei nostri vertici istituzionali per complicità nei crimini di cui sono vittime i migranti in Libia? La domanda appare provocatoria, perché la politica di collaborazione con le autorità libiche nel controllo delle migrazioni è tutt’altro che una circostanza negata o taciuta dai nostri governi, e la sua attuazione trova larghissimo sostegno nell’opinione pubblica, oltre ad essere stata salutata con grande favore anche dalle istituzioni dell’Ue.

Ma proviamo a decontestualizzare la questione, togliendo di mezzo, per un istante, la politica e l’attualità, e affrontando la questione in termini squisitamente giuridici. Ci sono dei centri di tortura gestiti da autorità di un governo X, e un altro governo Y, che ben conosce la situazione di questi centri, fornisce aiuti e mezzi al primo per gestirli: è così azzardato chiedersi se i membri del governo Y possano essere ritenuti responsabili per complicità nei crimini commessi in tali centri?

La tesi della responsabilità penale delle autorità italiane (ed europee) per complicità nei crimini contro l’umanità che si verificano in Libia è stata fatta oggetto di un’importante comunicazione redatta all’interno di un progetto di cliniche legali dell’Università di Scienze politiche di Parigi, e presentata nel giugno 2019 all’ufficio della Procura presso la Corte penale internazionale. Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) sta valutando la presentazione di un esposto in sede interna per complicità delle nostre autorità con quella vera e propria associazione criminale rappresentata dalla Guardia costiera libica.

Realisticamente, le probabilità che tali iniziative conducano (in sede internazionale o interna) ad un procedimento penale a carico della autorità italiane (ed europee) per le atrocità dei campi libici sono scarse, per una serie di ragioni tecnico-giuridiche cui qui non vi è lo spazio neppure per accennare, e per ragioni politiche facili da intuire. Ciò tuttavia non fa venir meno il senso di tali iniziative, il cui significato va oltre il piano strettamente giudiziario. Il diritto serve a segnare dei limiti alle decisioni che la politica può assumere, perché i diritti fondamentali non sono nella libera disponibilità della maggioranza di governo.

Di fronte allora a violazioni dei diritti umani così eclatanti come quelle che avvengono in Libia, è dovere dei giuristi dichiarare con forza che ogni forma di consapevole complicità con tali atrocità configura un fatto criminale, i cui responsabili dovrebbero risponderne davanti ad un Tribunale penale. Molto probabilmente le contingenze politiche impediranno che ciò avvenga, ma avere l’onestà di riconoscere che la nostra cooperazione con la Libia si traduce in una complicità criminale, può rappresentare un passo importante verso la costruzione nell’opinione pubblica di una coscienza pubblica che avverta come intollerabile il perpetuarsi di tali politiche.

* professore di diritto penale Università di Brescia, vice-presidente Asgi