L’isola è tra i luoghi sacri della letteratura fantastica. Lo è nel senso più stretto e pertinente: un piccolo universo conchiuso nel quale misurarsi con le prerogative della divinità, uno spazio protetto per potersi esercitare nel gioco della creazione. Un laboratorio del tutto speciale, attrezzato per produrre o manipolare le aspirazioni più profonde dell’essere umano: eternità, felicità, libertà. Senza essere ostacolati dalle regole e dalle interferenze della vita sociale e delle sue istituzioni. Quelle che, invece, nella prosaica isola di Robinson, il laborioso eden dell’homo oeconomicus, andavano mettendo in scena la legittimazione (anch’essa fantastica nella sua interessata irrealtà) della propria morale e dei propri soprusi.

Di questi laboratori della creazione, laddove il mare sostituisce la campana di vetro nel tenere al riparo da ogni interferenza esterna, esistono esempi numerosi, ma basteranno tre isole e tre nomi – Castel, Morel, Moreau – a illuminarne il segreto nella maniera più vivida. Le prime due isole scaturiscono dal genio di Adolfo Bioy Casares, la terza da quello di H. G. Wells.

Un visitatore imprevisto
A narrare quello che in esse si cela, scoprendolo passo dopo passo, ipotesi dopo ipotesi, tra innumerevoli trabocchetti e false apparenze, è sempre un visitatore esterno, sovente un naufrago, che irrompe nella totalità chiusa del piccolo universo insulare. Un intruso, un ospite indesiderato, un osservatore esitante e sprovveduto.

La prima isola è un luogo reale, l’isola del diavolo, nella tristemente famosa colonia penale della Guiana francese. Il visitatore è un tenente di vascello, Henri Nevers, speditovi a prestare servizio per qualche tempo, in seguito a un torbido affare di famiglia. Sarà lui, nel suo tortuoso indagare, a svelarci l’ambiguo disegno, feroce o umanitario, sovversivo o repressivo, difficile a dirsi, del governatore della colonia penale Pierre Castel. Il progetto al quale lavora, al riparo da qualunque sguardo indiscreto, è quello di restituire la libertà ai detenuti tra le mura stesse della loro prigione. Intervenendo chirurgicamente sui prigionieri e ricoprendo le nude pareti della cella di una particolare combinazione mimetica di linee e colori, questa avrebbe dovuto apparire ai reclusi come il più desiderabile dei luoghi, come «i giardini della più illimitata libertà».

Ma quali potevano essere questi luoghi meravigliosi? La risposta è negli appunti del governatore: «Non possono diventare le loro case natali, perché non vi vedranno l’infinità di oggetti che quelle racchiudevano; per la stessa ragione non possono essere una grande città. Possono essere un’isola. La favola di Robinson è una delle prime costanti dell’illusione umana (…) Risvegliai nei miei uomini la speranza di libertà, sostituii la loro ansia di tornare alle proprie case e alla città con l’antico sogno dell’isola deserta». Un «piano di evasione» (così si intitola il breve romanzo di Casares) che sembra riuscire alla perfezione al governatore se, durante un sopralluogo segreto alla misteriosa e inquietante isola del diavolo, il tenente Nevers chiedendo a un forzato «se potesse andarsene, che posto sceglierebbe per vivere?» si sentirà rispondere, con grande candore, «me ne andrei su un’isola deserta». L’isola infelice si proietta nel suo doppio paradisiaco in un immobile movimento.

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Nessuna isola, reale o immaginaria che sia è, tuttavia, sufficientemente isolata. Il piccolo universo non sfugge mai alla contaminazione di quello più vasto che lo contiene. Vi è sempre, una crepa, una falla, attraverso la quale l’imprevisto irrompe nel microcosmo e ne sconvolge le regole, ne travolge gli equilibri. A trasformare in catastrofe l’esperimento di Castel, i «giardini dell’infinita libertà» in un incubo infernale, è l’esperienza passata di uno dei detenuti, naufrago proprio su un’isola deserta. Unico e irriconducibile a quello dei suoi compagni di prigionia, sarà proprio questo doloroso vissuto soggettivo a rovesciare la rappresentazione del paradiso insulare progettata dal governatore in quella di un inferno.

La macchina della felicità
Il paradiso: è, infatti, proprio questa meta, da tutti agognata ma negata dall’asprezza del mondo, dalle sue mura invalicabili, dal suo stridore e dalla sua corruzione, che l’isola e il suo demiurgo promettono a una piccola comunità di ignari «privilegiati». Non senza alludere a una prospettiva di «liberazione» dell’umanità intera. Il mondo può, in fondo, essere pensato come una grande prigione. Ma a questa impresa inaudita, Castel si dichiara impreparato.

Nel racconto più celebre e geniale di Bioy Casares, L’invenzione di Morel, sarà ancora un’isola ad ospitare il sogno dell’inventore e il macchinario progettato per realizzare il suo paradiso. Il più profondo e ineliminabile dei sogni. Cosa altro è, infatti, il paradiso se non la combinazione di felicità ed eternità? Questa combinazione è ciò che la macchina di Morel ha il compito di produrre, al riparo da ogni interferenza umana come si addice, appunto, al regno dei cieli. Nell’isola, Morel ospiterà un gruppo di amici cercando di vivere con loro una settimana di perfetta felicità, elegante, raffinata, curata nei minimi particolari. La macchina riprenderà in ogni istante questa messa in scena della perfezione, per poi riproiettarla in eterno nella materia, priva di vita propria, di cui è fatta la vita passata. Ad alimentare per sempre il proiettore di Morel sarà una forza ritmica e inestinguibile: quella delle maree.

Ma c’è, anche qui, un inconveniente: la macchina distrugge i soggetti che riprende, la copia annienta l’originale. La legge che vuole essere la morte, la porta per accedere al paradiso è in qualche modo beffardamente ripristinata. Anche se l’eternità prodotta da Morel si consuma per intero nell’aldiqua, nella spettrale ripetizione di ciò che è stato.
Ancora una volta sarà un naufrago, un fuggiasco, un uomo braccato, lo spettatore, prima spaventato, poi affascinato e infine inghiottito dallo spettacolo che allieta l’isola di Morel. Per amore di una delle sue ignare attrici, il fuggiasco, pur consapevole della morte cui va incontro, si farà riprendere dalla macchina. Ma, eternamente, la sua copia filmata resterà in uno spazio e in un tempo diverso da quello dell’oggetto del suo amore. Nessun contatto, se non quello di uno spettatore estraneo alla scena, gli sarà mai consentito. I diversi segmenti del tempo restano condannati all’eterno «isolamento».

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Un’efferata fabbrica
Al cospetto del dottor Moreau dovremo, invece, metter da parte le raffinatezze filosofiche di Castel e Morel, lettore, il primo, di Schopenhauer e della teoria dei colori di Goethe; esploratore inaudito di una metafisica materialista il secondo. Nella sulfurea isola vulcanica, lontana da ogni rotta conosciuta, come si conviene in questi casi, nel piccolo regno di uno scienziato bandito dal mondo civile, domina incontrastato il più efferato positivismo di fine Ottocento.

Sarà di nuovo un naufrago, un «modesto gentiluomo», non troppo perspicace, né dotato di una solida personalità, il testimone indesiderato del progetto «scientifico» di Moreau. L’isola è popolata da inquietanti creature dalle sembianze umane, malriuscite quando non evidentemente deformi, dotate di un linguaggio primitivo e stonato. Questi esseri sono occupati nel servire il «padrone» dell’isola, l’illustre biologo e fisiologo Moreau, appunto, e il suo aiutante, un pallido medico alcolista caduto in disgrazia. Dall’interno di un recinto segreto in cui sono segregati i più diversi animali su cui «lavora» lo scienziato provengono grida strazianti.

Il naufrago intuisce ben presto l’orrore, ma sbaglia completamente la diagnosi. Immagina che Moreau stia menomando e modificando esseri umani, forse naufraghi come lui stesso, per ridurli a bestie da soma. Ma è esattamente il contrario: il fisiologo londinese intende fabbricare esseri umani a partire dalla materia animale, a colpi di innesti tra diverse specie e modificazioni chirurgiche degli organi. Il dio positivista crea a filo di bisturi; non intende edificare un paradiso (produrrà, infatti, un inferno) ma ricreare la materia vivente, qualsiasi materia vivente, a immagine e somiglianza dell’essere umano: «umanizzare» il bruto, questo è il suo scopo. E, come un dio, Moreau si comporta a tutti gli effetti. Ma è un dio fallibile, le sue creature, dopo numerosi tentativi, continuano ad essere imperfette, mutile, goffe, sgradevoli. E, soprattutto, la loro precaria natura umana regredisce più o meno rapidamente verso le sue origini bestiali.

Così, per rallentare se non per impedire questa regressione, nell’isola viene imposta una religione che investe esplicitamente Moreau delle prerogative divine, e stabilisce stravaganti precetti. La Tavola della Legge proibisce di procedere a quattro zampe, di mangiare pesce o carne, di grattare la corteccia degli alberi, di lappare l’acqua dei fiumi e degli stagni e impone perfino una improbabile monogamia ai bruti «umanizzati» che popolano l’isola. Pena per ogni trasgressione sarà tornare sotto i ferri nella «Casa del dolore» per restaurare l’umanità indebolita.

Il limite da sorpassare
I tragicomici fenomeni da baraccone (il satiro-pecora, il toro-orso, la iena-maiale, l’uomo leopardo) usciti dal laboratorio di Moreau non fanno che salmodiare questi precetti, ma sempre più spesso inclinano a trasgredirli nel buio della notte. Fino alla inevitabile catastrofe finale, quando la natura bestiale tornerà a prendere completamente il sopravvento e i «mostri» dilanieranno il loro creatore e il suo assistente. Il naufrago, riuscirà invece a sopravvivere, per poterci raccontare questa storia, a diversi mesi di difficile convivenza con le creature dell’isola, sempre più selvatiche, ma finalmente libere dopo l’uccisione del dio-tiranno.

Si può leggere quello che si vuole in questo tetro racconto: la fragilità del processo di civilizzazione, la religione come «oppio dei popoli» o, al contrario, l’impossibile usurpazione dell’onnipotenza divina. Tutto è piuttosto ambiguo e perfino sconclusionato. La letteratura fantastica non conosce morale della favola. La sua isola è, in fondo, un luogo di confine, di un confine permeabile, tra il mondo delle norme, delle convenzioni e delle rassicuranti abitudini e quello dell’azzardo, dell’arbitrio, del superamento dei limiti, della scommessa sull’impossibile. Il dialogo tra l’intruso e il dominus dell’isola si svolge appunto su questa linea di confine. Ma a nessuno dei due spetterà la palma della verità e della ragione. Perché di questa ambiguità e di questa tensione è fatta la sostanza della vita.

2 – continua

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Domani, il viaggio per mare continuerà con Mount Desert, l’isola selvaggia del Maine dove Marguerite Yourcenar venne invitata nel 1942 da un amico a passare l’estate insieme a Grace. La scrittrice se ne innamorò, acquistò una casa e la ribattezzò Petite Plaisance. Qui terminò «Le memorie di Adriano». A raccontarci questa scelta di vita sarà Giuliana Misserville

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1 – Iain Chambers, La schiavitù galleggiante