Per chi vince, gli anniversari servono a celebrare. Per chi perde, a lavarsi la coscienza, oppure a tentare di riscrivere la storia. Nel primo caso, retorica ed emotività hanno la meglio sulla razionalità e sull’analisi. Nel secondo, gli sconfitti provano a dirsi vincitori. Vale anche per l’Afghanistan, a un anno dalla caduta di Kabul nelle mani dei Talebani, il 15 agosto 2021. Gli slogan in questi giorni si ripetono uguali: «prigione a cielo aperto»; «donne senza diritti»; «non abbandoniamo l’Afghanistan».

Le immagini sono indistinguibili e riduttive: un Paese di circa 40 milioni di abitanti ridotto a burqa (le donne) e kalashnikov (i Talebani). Al posto di bilanci politici necessari, condanne generiche, che si esauriscono insieme alla nostra indignazione intermittente. Come se bastasse l’indignazione a risolvere il problema del «che fare?», chiamando la politica alle sue responsabilità verso la popolazione afghana. Vittima della drammatica illusione occidentale di portare la democrazia con le armi e poi delle politiche repressive dei Talebani. Illusi, gli islamisti al potere, che il Paese possa essere governato ancora con il contratto sociale degli anni Novanta: le libertà in cambio della ‘sicurezza’.

Lo dimostra la manifestazione di protesta di ieri di fronte al ministero dell’Istruzione, nella capitale. Dove alcune decine di donne hanno manifestato chiedendo «pane, lavoro, libertà», dichiarandosi oltraggiate «dall’ignoranza al potere» e scandendo slogan contro i Talebani. Che hanno disperso la manifestazione, picchiato alcune di loro e sparato in aria.

Dall’estero, tornano a farsi vivi gli sconfitti: l’ex presidente Ashraf Ghani, il tecnocrate pashtun che invocava il martirio a difesa delle istituzioni repubblicane che pretendeva di incarnare e che il 15 agosto è invece fuggito, consegnando Kabul agli Haqqani, rilascia un’intervista. Non ammette colpe, rivendica il lavoro fatto, giustifica la fuga dicendo che non ama la violenza e la guerra. Sfidando la rabbia degli afghani e delle afghane, al contrario di lui rimasti in un Paese strangolato dalle sanzioni, dall’isolamento e dal congelamento all’estero di circa 9 miliardi di dollari della Banca centrale afghana.

Non teme il ridicolo neanche il generale statunitense David Petraeus. Dopo aver guidato le truppe americane in Iraq e Afghanistan – due Paesi sanguinosamente segnati dall’interventismo muscolare Usa – sul quotidiano la Repubblica sostiene che nel Paese centroasiatico serviva lasciare altri uomini sul campo. Come se non fosse stata la presenza delle truppe straniere il principale carburante per la propaganda dei Talebani. Come se il ritiro fosse sbagliato, non la guerra. Non l’invasione divenuta occupazione militare.

Ognuno fa il suo mestiere: l’ex presidente difende la sua eredità, che intende affidare al giudizio degli storici; l’ex generale, ora consulente per un’azienda che vende informazioni strategiche, difende le armi, che portano profitti a chi le produce, morte ai civili. La difesa della popolazione afghana va in un’altra direzione. Prendere atto che i Talebani sono al potere e decidere: o si foraggia la resistenza armata, spingendo per una nuova guerra civile, o si trova il modo per lavorare anche con e attraverso le istituzioni afghane, anche se rette dai Talebani. Il primo passo, in ogni caso, è chiaro e sempre più urgente, di fronte alla crisi umanitaria: permettere alla Banca centrale afghana di accedere alle proprie riserve all’estero, in modo graduale e monitorato. È l’unica strada per evitare il precipizio.