Cultura

L’intelligenza artificiale alla prova della medicina

L’intelligenza artificiale alla prova della medicinaFederico Cabitza dell'Università Milano-Bicocca

L'intervista Parla Federico Cabitza che all’università di Milano Bicocca insegna «interazione uomo-macchina». Domenica sarà al Cicap Fest di Padova che da domani al 15 ottobre porterà nella città veneta decine di ospiti italiani e internazionali. Con il giornalista Emanuele Menietti dialogherà sul tema «Ai confini dell’intelligenza artificiale: etica e nuove tecnologie»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 12 ottobre 2023

Federico Cabitza è uno dei maggiori esperti italiani nel campo dell’intelligenza artificiale. All’università di Milano Bicocca insegna «interazione uomo-macchina». Ma è anche ricercatore presso l’ospedale Galeazzi-S. Ambrogio di Milano, dove ne studia l’impatto in ambito medico. Con Luciano Floridi ha pubblicato Intelligenza artificiale: L’uso delle nuove macchine (Bompiani, 2021). Domenica a Padova interverrà al Cicap Fest, il festival della scienza che da domani al 15 ottobre porterà nella città veneta decine di ospiti italiani e internazionali. Con il giornalista Emanuele Menietti dialogherà sul tema «Ai confini dell’intelligenza artificiale: etica e nuove tecnologie».

Al momento l’intelligenza artificiale genera più domande che risposte. E soprattutto paure: sono giustificate?
La paura è l’atteggiamento più sbagliato, perché ci fa arroccare in posizioni non pronte al cambiamento. Ma le preoccupazioni sono reali. Per esempio: ci sostituirà? Certo, alcune mansioni verranno automatizzate. Ma probabilmente avrà un effetto anche più dirompente ma non così banale. Ci sono funzioni che l’IA rende più precise: dalla diagnosi precoce alla diagnosi «aumentata», l’organizzazione dei trial clinici, la robotica che assiste la chirurgia. Una speranza è che sollevi il medico dal lavoro burocratico. Al Galeazzi, ad esempio, la stiamo sperimentando per estrarre i concetti principali di una visita e compilare la cartella clinica in modo automatico. L’obiettivo è liberare tempo in modo che il medico ne abbia di più per dare attenzione al paziente. Ma se verrà usata così è una questione soprattutto politica, perché il tempo liberato si può usare anche per visitare un paziente in più. Tutto dipende dalla sanità che vogliamo.

Ci stiamo ponendo le domande giuste sull’intelligenza artificiale in medicina?
Tendiamo a confrontare un’intelligenza artificiale e una umana per vedere quale sia più efficiente. Ma la vera domanda è se un team di esseri umani supportato dalla macchina sia più efficace di un team non supportato. Cioè se migliora il lavoro umano, e non se è in grado di batterlo. Ora, e prendo a esempio un recente rapporto dell’azienda OpenAI e dell’università della Pennsylvania, si inizia a dibattere su come l’IA possa svolgere alcune attività all’interno di processi che rimangono governati dagli umani. Da ingegnere mi sembra un modo ragionevole di porre la questione.

Nelle sue ricerche dà molta importanza alle cosiddette «leggi di Kasparov»: a cosa si riferisce?
Significa che non basta sapere quanto sia potente il sistema informatico, ma anche in quale processo di interazione con gli umani sarà inserito. Significa anche tenere conto dei pregiudizi degli esseri umani e delle loro competenze. A differenza di altri, non credo che le macchine siano necessariamente più accurate nel prendere decisioni ma che possano amplificare gli aspetti positivi e negativi del lavoro umano. E molto dipende dal processo.

Lei studia il cosiddetto «deskilling»: significa che l’intelligenza artificiale ci rende stupidi?
Gli esseri umani che si affidano troppo alla macchina possono perdere la capacità di esprimere giudizi sensati in casi complessi, e non solo in campo medico. Quando valutiamo un caso che riguarda una persona mettiamo in gioco tanti criteri difficili da formalizzare, e spesso facciamo errori. L’intelligenza artificiale può aiutarci: nell’interpretazione di una risonanza magnetica i medici sbagliano due volte su dieci e, se supportati, il tasso di errore può scendere al cinque per cento. Ma grazie a questi strumenti tendiamo naturalmente a «impigrirci»: chi ricorda più i numeri di telefono, ora che abbiamo lo smartphone? Ma siamo pronti a perdere anche la capacità di interpretare un caso complesso? Di nuovo, è una decisione politica.

Intepretare meglio una mammografia, come lei sottolinea spesso, non equivale necessariamente a un migliore risultato terapeutico.
Tra la mammografia e l’esito clinico c’è il lavoro dei medici. A noi interessa l’impatto dell’intelligenza artificiale soprattutto in termini di mortalità, di degenza, di qualità della vita. E gli effetti, se ci sono, sono molto piccoli. Nel caso di uno screening di massa come quello mammografico un miglioramento anche piccolo diventa rilevante perché viene moltiplicato per un gran numero di pazienti. Però sorge anche il problema enorme della sovradiagnosi, che ne diminuisce il beneficio: ci sono patologie diagnosticate precocemente che in realtà non avrebbero provocato sintomi, e altre che non possono essere curate anche se diagnosticate in anticipo. Dunque si pone la questione dei costi e dei benefici, così come per tutti i farmaci. Già nel 2018 con Hugh Harvey, proponemmo di sottoporre l’IA alle stesse valutazioni a cui sottoponiamo i farmaci, tenendo conto sia dei vantaggi che degli effetti collaterali. Proponevamo cioè che alla «farmacovigilanza» si affiancasse la «tecnovigilanza».

I manager ospedalieri la ascoltano?
Il medico investe molte energie per migliorare la vita dei pazienti. Se uno strumento può migliorare le cure l’interesse è spontaneo. Invece, tra chi si occupa di sanità da un punto di vista più amministrativo spesso prevale una logica diversa. Per quello l’approccio della tecnovigilanza è necessario: aiuta a prendere decisioni razionali.

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