Santo Peli è uno studioso che non avrebbe bisogno di una presentazione, specie sulle pagine del manifesto. Esperto di storia della classe operaia tra le due guerre mondiali, ha dedicato studi fondamentali alla Resistenza italiana. A lui si devono alcune delle riflessioni più raffinate sulla questione della scelta delle armi e sulla violenza partigiana, nonché sulla memoria della guerra e sugli sviluppi della storiografia. Il suo Storie di Gap (Einaudi, 2014) non ha soltanto permesso la prima vera storicizzazione del fenomeno gappista, ma anche rilanciato il dibattito sulle problematiche etiche del terrorismo urbano sfrondando il campo dagli stereotipi e mettendo in primo piano le motivazioni politiche e le angosce umane insite in quel tipo di guerriglia. Attente alla cultura dei soggetti subalterni, le ricerche di Peli mettono al centro il vissuto dei protagonisti nella loro materialità, complessità e nell’intrinseca conflittualità nei confronti della cultura dominante.
Abbiamo scelto di intervistarlo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana e dintorni (Bfs, Centro studi movimenti di Parma, pp. 138, euro 16, 2022). Si tratta di una raccolta composta da nove saggi scritti tra il 2010 e il 2021 e già pubblicati in alcuni volumi specialistici. Nell’introduzione si denuncia in modo esplicito «l’uso/abuso pubblico della storia, particolarmente rilevante per un evento fondativo qual è la Resistenza».

Questo volume non può che richiamare alla memoria un’altra sua raccolta di saggi uscita nel 1999 con il titolo «La Resistenza difficile». Quel testo si inseriva in quella che definisce in uno dei saggi («Le stagioni del dibattito storiografico sulla Resistenza») la «terza fase» della storiografia sulla Resistenza. Come è cambiato da allora il modo di leggere quel passaggio storico. Si può parlare di nuove fasi?

Premesso che ogni schematizzazione periodizzante va presa con le molle, utilizzo l’espressione «terza fase» per sottolineare che Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza di Claudio Pavone (1991), opera decisiva per molti aspetti, rappresenta anche l’emancipazione della storiografia resistenziale da ogni pratica di autocensura, sia pur tradizionalmente motivata dall’intento di non favorire i sempre più numerosi detrattori della vicenda resistenziale. Siamo attualmente in una nuova fase? Direi di no, dal punto di vista storiografico, anche se è evidente che si è quasi estinta, da un paio di decenni, l’attenzione per le componenti di lotta di classe e connesse aspettative, questioni sulle quali l’opera di Pavone apriva prospettive interpretative rimaste in buona parte trascurate. Ma è nel discorso pubblico sulla Resistenza che si assiste, a mio parere, ad una progressiva regressione verso retoriche celebrative che richiamano fortemente gli anni ’50 e ’60, mentre vedo riemergere l’immagine, intramontabile perché auto-consolatoria, di un «popolo alla macchia», animato dall’amore per la libertà, la democrazia e la patria. Più o meno consapevolmente, si rilancia l’idea che l’autentica vocazione nazionale si inveri nella guerra di liberazione, confinando di nuovo tra parentesi il fascismo.

All’interno di questa raccolta il saggio «Partito nuovo e aspettative antiche: comunisti e Resistenza» sembra ricco di interesse da molti punti di vista. Può sintetizzarne alcuni contenuti?

L’ipotesi di fondo del saggio è che il «partito nuovo», la sua linea «nazionale», l’obiettivo strategico della realizzazione di una «democrazia progressiva», benché scarsamente compresi e condivisi alla base, furono in fondo accettati o tollerati (a prezzo di un incessante lavoro di pedagogia politica) non tanto in sé, quanto per la «diversità comunista» che il volontarismo, la durezza, l’intransigenza quotidianamente impresse alle concrete forme della lotta lasciavano intravedere. Non a caso, nell’arco di pochi mesi e nella successiva memoria pubblica, è il Partito comunista a costituirsi come «partito della Resistenza per eccellenza», il partito dei martiri, il partito la cui vocazione nazionale e la cui legittimità a governare affondano le radici nel contributo maggioritario dato all’organizzazione della guerra partigiana.

Nell’introduzione scrive che nel corso degli anni le «raccomandazioni e i timori» del partigiano Emanuele Artom sono diventate «fondamentale motivo di ispirazione». Del suo diario dichiara di apprezzare «la profonda tensione antiretorica». Considerazioni simili a quelle che avanza nel saggio dedicato a Claudio Pavone partigiano riflettendo sul suo ultimo libro di carattere autobiografico («La mia Resistenza», 2015).

Sì, continuo a trovare straordinariamente profetica la preoccupazione di Artom, che «fra qualche decennio una nuova retorica patriottarda o pseudoliberale non venga ad esaltare le formazioni dei purissimi eroi». Anche se per il saggio «Memorie partigiane» ho scelto, come frase conclusiva una citazione di Nuto Revelli: «Questo era il nostro partigianato: un’esperienza meravigliosa perché vissuta da gente diversa – mille tipi con mille idee – da gente diversa che s’era ritrovata proprio nel partigianato, nella lotta. Gente comune, con pregi e difetti, non un esercito di santi». E persino il saggio dedicato al diario di Giovanni Pesce si chiude con una citazione di Brecht: «Sventurato il Paese, che di eroi ha bisogno». Insomma, colgo qui una vera e propria ossessione antieroicistica. Tocca agli eventuali lettori scoprire se questa «ossessione» sia ben motivata, e storiograficamente proficua.

Il saggio, intitolato «Eredità e disincanti», pone il problema della disillusione e delle profonde crisi individuali che provocò il modo in cui fu gestito il passaggio dal fascismo alla Repubblica e le ben note questioni della mancata epurazione e della continuità dello Stato. La sua prospettiva indica però un percorso nuovo. Ce lo può illustrare?

In questo saggio constato che esistono ancora dei temi cruciali sui quali si è lavorato troppo poco, tanto che gli esiti sociali e antropologici dell’esperienza partigiana, estremamente diversificati da zona a zona, restano avvolti da impressionismi e approssimazioni. Mi limito a un solo esempio. Sappiamo che in alcune zone l’aver impugnato le armi – e dunque aver versato sangue, dello straniero ma anche di italiani, magari concittadini – diviene un marchio di pericolosità sociale, fonte di emarginazione, tanto da indurre in molti casi all’emigrazione. Per le partigiane, anche le prospettive matrimoniali sono fortemente compromesse. In altre zone invece l’esperienza partigiana costituisce da subito un titolo di benemerenza, e favorisce l’inserimento nella vita lavorativa, negli affari, nelle istituzioni. Se si passa dalla categoria astratta della Resistenza, alla brutale concretezza dell’esperienza partigiana e dei suoi lasciti esistenziali, è facile percepire quanto la varietà delle situazioni imponga comparazioni e distinzioni decisive. In questa direzione resta ancora molto da fare.