C’è chi ha il petrolio, chi le terre rare. E poi c’è chi ha i semiconduttori. Mentre l’economia mondiale veniva affossata dalla pandemia, l’industria dei chip ha compiuto un (ulteriore) grande balzo in avanti. Un balzo di cui è protagonista Taiwan, il piccolo-grande rivale di Pechino dall’altra parte dello Stretto.

La domanda globale di semiconduttori continua ad aumentare e dipende in larga parte dalle fabbriche taiwanesi, che detengono oltre il 60% della produzione mondiale. Una dipendenza che apre dilemmi economici, come dimostra la carenza di sperimentata in questi mesi a causa della siccità che ha colpito Taiwan, tirata per la giacchetta per dare priorità al settore automotive tedesco e statunitense. Per far fronte alla crescente richiesta, che nel 2020 ha portato il colosso Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. (Tsmc) ad aumentare i ricavi del 50% raggiungendo i massimi livelli dell’ultimo decennio, i produttori stanno cercando di ampliare la propria capacità produttiva rafforzando le proprie risorse umane.

Nel secondo trimestre del 2021 le assunzioni nell’industria dei semiconduttori taiwanese sono aumentate più del 44% rispetto al 2020, con 27mila posizioni aperte tra aprile e giugno. Si tratta del dato più alto dalla fine del 2014. Nonostante l’aumento della domanda, lo stipendio medio nell’industria dei semiconduttori taiwanese è però diminuita dello 0,4% su base annuale. Anche per questo, dal 2017 circa tremila ingegneri locali sono stati ingaggiati da aziende cinesi. Talvolta con metodi «audaci» e sotto esame della giustizia taiwanese, come nel caso del reclutamento di 100 taiwanesi da parte della Bitmain Technologies.

Da tempo, gli Usa cercano di tagliare il cordone tecnologico e commerciale che unisce Taipei e Pechino. Prima di lasciare la Casa Bianca, Trump ha imposto alla Tsmc il divieto di esportazione verso Huawei, ottenendo l’annuncio dell’apertura di una fonderia in Arizona entro il 2024. Ancora negli scorsi mesi, l’amministrazione Biden ha intimato alla Tsmc di interrompere le spedizioni di chip alla Tianjin Phytium Information Technology, una delle entità cinesi che stanno sviluppando i cosiddetti «supercomputer». Ma tagliare quel cordone non è semplice, per diversi motivi. Il primo è puramente commerciale: ancora nel 2020 il mercato cinese contava il 17% per le esportazioni Tsmc. E dopo il ban trumpiano il posto del gigante di Hsinchu è stato preso da un altro competitor taiwanese, MediaTek.

L’azienda ha conquistato una posizione dominante nella catena di approvvigionamento dei marchi cinesi di smartphone con il 54,1% delle spedizioni totali. Non solo Huawei, ma anche Oppo, Vivo e Xiaomi utilizzano i chip di MediaTek. Il secondo motivo per cui non è semplice tagliare quel cordone è invece strategico. Come dimostra l’acquisizione da parte di Tsmc (e Foxconn) di dieci milioni di vaccini Pfizer-BioNTech attraverso l’intermediazione di Fosun, colosso farmaceutico di Shanghai, le aziende private taiwanesi operano spesso come agenti diplomatici. In assenza di scambi politici ufficiali intrastretto, gli imprenditori si sostituiscono ai governi. Anche per questo Taipei non intende far uscire le proprie capacità più avanzate, nemmeno per farle finire tra le braccia dell’alleato statunitense.

Nella sua fonderia di Nanchino, la Tsmc fabbrica chip a 28 e 16 nanometri. I semiconduttori a 5 nanometri non saranno più all’avanguardia quando aprirà lo stabilimento in Arizona. Entro il 2022, l’impianto di Tainan (nel sud di Taiwan) avvierà la produzione di massa di chip a 3 nanometri. Nei giorni scorsi è stato invece approvato il piano per la costruzione di una nuova fonderia a Baoshan, vicino alla sede principale di Hsinchu, in grado di produrre semiconduttori a 2 nanometri. Una tecnologia nettamente più avanzata di quella cinese, secondo il fondatore della Tsmc Morris Chang in ritardo di circa cinque anni, ma anche di quella americana. Taiwan non vuole perdere la sua leadership. E non solo per una questione commerciale.