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L’incendiario Trump resta con il cerino in mano

foto trump wisconsinUna sagoma di Trump a Elkhorn, in Wisconsin, durante le presidenziali 2020 – foto Scott Olson /Getty Images

Commenti Dopo New York, una serie di altre incriminazioni in arrivo. Ma il suo «Movement» non crede al teorema della cospirazione e questa volta non si muove

Pubblicato più di un anno faEdizione del 6 aprile 2023

Non solo il giudice di Manhattan Alvin Bragg, con i suoi 34 capi d’imputazione. Ma anche Fani Willis, la giudice distrettuale di Fulton County, che presto si pronuncerà sui tentativi di interferire nel voto del 2020 in Georgia. E Jack Smith, special counsel federale che a Washington indaga sull’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 e sull’illegittima detenzione a Mar-a-Lago di documenti classificati. E poi E. Jean Carroll, che l’accusa di stupro: il 25 aprile ci sarà la prima udienza. Ancora: Letitia James, l’attorney general dello stato di New York che indaga su reati di frode finanziaria, con un’udienza programmata il 2 ottobre.

UNA «VASTA COSPIRAZIONE» che secondo Trump è frutto di una trama ordita da giudici democratici neri, razzisti con i bianchi (Bragg, Willis, James), un lunatico con un nome finto (Smith), donne in cerca di soldi e di facile notorierà, un’operazione sostenuta dai media liberal, dai commentatori di sinistra. Ma lui, la vittima della macchinazione, anche questa volta rovescerà a suo favore gli eventi, com’è riuscito a fare per cinquant’anni, dagli anni Settanta, da quando è inseguito dai giudici, prima come tycoon senza scrupoli, poi anche come politico e presidente.

Ma a questo racconto, lo stesso protagonista comincia a non crederci più. Trump in realtà è nei guai, il teorema della cospirazione fatica a tenere, perfino con i suoi seguaci più fanatici, e comunque deve fare i conti con la dura realtà d’indagini accurate e approfondite, condotte da magistrati tosti, diversi, per diversi reati.

Ai tempi in cui era un palazzinaro le sue frequentazioni delle aule giudiziarie erano gestite da grandi studi legali ed erano materia dei tabloid, oggi, da ex presidente, ha le prerogative riservate alla sua carica, e le usa tutte, e, da candidato alla presidenza, può reagire alle indagini non solo con stuoli di avvocati ma aggiungendo al loro lavoro l’intimidazione personale, perfino fisica, politica nei confronti dei giudici, con appelli alla mobilitazione e alla rivolta indirizzati al suo Movement, incitando alla PROTESTA, PROTESTA, PROTESTA «per salvare l’America», mica lui…

LA MOBILITAZIONE, PERÒ, non c’è stata. Niente a che vedere finora con la rivolta del 6 gennaio 2021. Quella giornata, vista alla distanza, ha d’altra parte una sua unicità irripetibile. Secondo il politologo Jon Lewis, interpellato dal New York Times, la sommossa del 6 gennaio «assunse una forza incendiaria grazie alla particolare combinazione di militanti trumpiani con una piccola coorte di estremisti che avevano trovato posto nel Partito repubblicano negli anni di Trump», blocchi elettorali che raggiungono maggiore coesione con il lockdown imposto da Covid, con le proteste e i disordini legati ai fatti di razzismo e infine con la non accettazione della vittoria di Biden e la diffusione di fake news sui brogli elettorali, con la contestazione dei risultati. Non fu quindi «solo» una mobilitazione a sostegno di Trump e della vittoria rubata, ma una convergenza di spinte sovversive prodotti da sommovimenti diversi, che oggi difficilmente può e sembra ripetersi. Peraltro, la solidarietà contingente e di facciata dei ras repubblicani è evidentemente pronta a liquefarsi se le prossime incriminazioni, aggiungendosi a quelle del tribunale di New York, dovessero formare un quadro in cui la difesa politica di Trump diventa problematica. Ed è quello che sembra stia per accadere.

BIDEN HA COMMENTATO con un mezzo sorriso la domanda di un giornalista a proposito dei guai con la giustizia del suo rivale. Con lui tace il grosso dei democratici. Che ci sia o meno intenzionalità in quest’atteggiamento, si vedrà prossimamente, fatto sta che mette in evidenza la differenza tra i due campi.

Quello repubblicano, scombussolato dall’energia distruttrice del suo leader e attuale riconosciuto candidato alle presidenziali 2024. Il caos. Dall’altra parte il campo dell’anticaos, come scrive il New York Times. I fatti di questi giorni stanno scrivendo il copione che dominerà la prossima corsa presidenziale. Il politico esperto e navigato da un lato, il gradasso pericoloso dall’altro. L’anticaos e il caos. Una contrapposizione che, a ben vedere, non è molto diversa da quella che caratterizzò la competizione del 2020. Con la notevole differenza del rovesciamento dei ruoli. Joe Biden, da sfidante, è il presidente in carica. Trump, da presidente in carica, è lo sfidante. Entrambi noti, arcinoti, agli elettori. Entrambi molto avanti negli anni. Entrambi più subiti che scelti dai rispettivi partiti. Ma con Biden in vantaggio, non fosse altro per il fatto di essere il presidente in carica, su Trump aggravato da fatti giudiziari sempre più pesanti che né lui né i suoi strateghi riescono a trasformare in punti di forza a suo favore.

FAR CREDERE alla macchinazione non è diverso dal far credere che le false immagini del trattamento subito come un criminale siano vero. Ormai la cospirazioone è tutta sua, su se stesso, e non funziona più.

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