Lina Soualem, nelle vite di quattro generazioni di donne la memoria della Palestina
Intervista Parla la regista, in «Bye bye Tibèriade» la sua storia famigliare come racconto di una comunità tra esilio, affetti, archivi
Intervista Parla la regista, in «Bye bye Tibèriade» la sua storia famigliare come racconto di una comunità tra esilio, affetti, archivi
C’è una bambina felice che si arrampica su un albero di fichi, gioca con la nonna, fa il bagno con la madre in un enorme lago dall’acqua blu, circondato da colline piene di ulivi. I suoi bisnonni vivevano a Tiberias, capitale della Galilea. Nel 1948 furono cacciati dalle loro case e costretti a farsi una nuova vita in un altro villaggio, Deir Hanna.
Quella bambina si chiama Lina Soualem, oggi ha 33 anni. È nata a Parigi, da madre palestinese e papà algerino, entrambi attori. Dopo gli studi in giornalismo e scienze politiche, ha deciso di iniziare a raccontare le storie della sua famiglia attraverso il cinema documentario – «lo strumento migliore per esprimermi».
Dopo Their Algeria, dedicato alle vicende dei nonni paterni, ha scritto e diretto Bye Bye Tibèriade, presentato alle Giornate degli autori di Venezia – e oggi nella rassegna «Venezia a Napoli».
Volevo dare voce all’umanità dei palestinesi con una rappresentazione diversa dall’abituale. L’orrore di questi giorni purtroppo non si fermeràLina Soualem
Un piccolo capolavoro che intreccia le vite di quattro generazioni di donne: madri, insegnanti, artiste, cittadine di un popolo cancellato dalle carte geografiche d’Europa. Un ritratto politico, profondo e poeticissimo che si nutre di affetti e ricordi intimi, immagini d’archivio, foto di famiglia, tracce dolorose di un esilio che la storia ha rimosso; la trasmissione della memoria di una comunità quasi scomparsa, identità stratificate che l’artista ha preso in consegna per rimettere insieme i pezzi.
Ci sentiamo poco prima della sua partenza per Napoli.
Perché hai deciso di raccontare Tiberias?
È stato molto complicato decidere di farlo. La storia della mia famiglia palestinese è una storia silenziata, molto tragica, di cui non è facile parlare. Presentando il mio primo lavoro ho visto quanto le persone si identifichino con le storie intime, anche quando si tratta di un background che non conoscono. Era qualcosa che volevo continuare a fare. Questa volta ho deciso di raccontare la storia delle donne della mia famiglia in Palestina: io sono quella che unisce tutte, dalla mia bisnonna a mia nonna a mia madre. Si tratta di storie dimenticate, cancellate, marginalizzate. I palestinesi sono stati de- umanizzati, volevo far sì che avessero indietro la loro umanità. Volevo ritrarre la loro forza, i loro volti, le emozioni, le loro battaglie personali. Più andiamo avanti più mi rendo conto di quanto fosse vitale raccontare questa storia. L’umanità non è mai qualcosa di acquisito, puoi sempre essere privato del possesso dei diritti: questa storia non finisce mai.
Il film contiene immagini inedite della Palestina, da dove provengono? E in che modo hai lavorato con tua madre?
Ho consultato diversi archivi storici: pubblici, privati, fondazioni da ogni parte del mondo. Ci è voluto tempo per accedervi. Uno dei più importanti è l’archivio inglese che risale al periodo del mandato britannico in Palestina prima del 1948, anche l’Onu ha fatto molte riprese durante il periodo dei campi e dei rifugiati. Ho iniziato circa sei anni fa, riguardando i filmini di famiglia. Ho notato cose nuove, come il fatto che mia mamma a trent’anni non era a suo agio in molte occasioni, la forte presenza delle donne. Poi sono partita e ho cominciato a riprendere e a montare. Ho lavorato con la mia co-autrice Nadine Naous, scrittrice e documentarista libanese palestinese e la montatrice francese libanese Gladys Joujou. Anche se mia madre è abituata alla macchina da presa, è stato difficile per lei tornare con la memoria ad alcuni momenti della sua vita. E per me era complicato farle certe domande. Abbiamo attraversato un lungo processo per trovare un equilibrio.
Cosa pensi in queste settimane così terribili?
Ho voluto raccontare la storia della mia famiglia palestinese perché è come se le loro vite non avessero lo stesso valore delle altre. È come se dovessimo provare di essere umani, provare di nuovo che le nostre voci e le nostre storie sono degne di essere ascoltate. Per questo trovo molta difficoltà a parlare di quello che sta succedendo. Presentando il film in giro vedo quanto le persone siano desiderose di conoscere la nostra storia: questo è importante continuare a essere presenti. Vivo in Europa, mi sento molto privilegiata, a volte anche in colpa: essere qui e sapere che molte persone a Gaza non sanno se sopravviveranno. Ho tanti amici che hanno perso persone care. Certo, l’attacco del 7 ottobre è stato terribile, conosco persone che hanno perso la vita. Ora siamo davanti a qualcosa che non possiamo fermare. Questo è l’orrore: questa cosa non si fermerà. Non sappiamo cosa succederà domani, le nostre memorie continueranno a esistere e per questo dobbiamo continuare a raccontarle.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento