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Donna e attivista, la nuova guida dell’anti-trust spaventa le Big Tech

Donna e attivista, la nuova guida dell’anti-trust spaventa le Big TechLina Khan, presidente della Federal Trade Commission – Web

Stati Uniti Lina Khan ha studiato alle Yale University e già da ricercatrice si fece conoscere. Perché nella rivista edita a cura dell’ateneo, pubblicò un lungo articolo-saggio intitolato: Amazon ed il paradosso dell’antitrust

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 17 giugno 2021

Una outsider alla guida. E se poi fosse vera la definizione di un suo ex collega – “una outsider e un’attivista” – Biden avrebbe fatto l’en plein. Cominciando a trasformare in scelte le sue – fino a ieri vaghe – dichiarazioni sul bisogno, sulla necessità di limitare lo strapotere delle Big Tech. Per ora quelle scelte hanno un volto e un nome: Lina Khan, trentaduenne professoressa alla Law School della Columbia University.

Ieri – sorprendendo un po’ tutti, perché nulla era trapelato nei giorni scorsi – il presidente degli Stati Uniti l’ha nominata alla guida della FTC, la Federal Trade Commission. Una delle più antiche agenzie governative, nata – più di un secolo fa, nel 1914 – col compito di impedire pratiche anticoncorrenziali. Con l’obbiettivo di bloccare lo strapotere dei monopoli.

Sarà lei, quindi, una donna, a guidare la FTC. Due mesi dopo essere entrata nell’agenzia. Ed è un nome, il suo – ed una storia personale e professionale – che spaventa molto Amazon, Alphabet, Apple e via via tutte le altre. Figlia di una famiglia pakistana, trasferitasi prima a Londra e poi negli States, Lina Khan ha studiato alle Yale University e già da ricercatrice si fece conoscere. Perché nella rivista edita a cura dell’ateneo, pubblicò un lungo articolo-saggio intitolato: Amazon ed il paradosso dell’antitrust. Ebbe una vastissima eco e le Big Tech cominciarono a temerla.

Ruolo che è cresciuto negli anni. Fino a pochissimo tempo fa, alla vigilia del lockdown per la pandemia, quando, guidando una equipe di ricercatori e studenti della Columbia, ha pubblicato un altro studio. Dove non ha usato mezzi termini per descrivere la situazione: “Una manciata di piattaforme digitali (…domina) il commercio e le comunicazioni online. Strutturando l’accesso ai mercati, queste aziende fungono da guardiani (… solo) per il proprio modello di business”.

La sua analisi è che negli ultimi decenni, l’anti trust americano abbia avuto come unico faro – probabilmente per ragioni di “facile consenso” – quello di garantire al pubblico, tariffe e servizi al minor costo possibile. Facendo contenti tutti: chi acquistava a meno e le imprese monopolistiche che quei servizi vendevano. Così l’occhio della FTC è stato meno vigile nei confronti dei colossi che hanno prima “vampirizzato” – acquistandole – le piccole concorrenti e poi si sono trasformati in un mondo chiuso, impenetrabile. Che scelgono cosa vendere, come vendere, a chi vendere e a chi far vendere.

Se le leggi avessero funzionato come previsto, insomma, quei colossi già da tempo sarebbero stati costretti a “separare” – a scorporare – le loro attività. Non puoi essere un negozio e nello stesso tempo decidere quale fornitore può trovare posto nella tua vetrina, non puoi decidere che ospiti rivenditori e poi li “taglieggi” con commissioni salatissime. Non puoi essere un social network e, nello stesso tempo, negozio, televisione, banca, edicola. Se le leggi avessero funzionato, insomma, ci sarebbe stata una normale concorrenza. Invece – parole di Lina Khan – i legislatori ed i controllori preposti hanno via via “attenuato” e abbandonato gli obbiettivi iniziali dell’antitrust.

Bastano questi pochi concetti per capire perché le grandi compagnie non hanno preso bene la sua nomina. Anche se sollecitati dai giornalisti, Amazon, Facebook, Alphabet e Apple non hanno voluto rilasciare una parola di commento. Hanno fatto parlare però la Information Technology and Innovation Foundation, una delle tante sigle che raggruppano l’industria tecnologica. Secondo questa sorta di confindustria americana, la nomina della Kham sarebbe il sintomo di una crescente “agenda populista” di Biden. Di più, mettendo le mani avanti: se andassero avanti i progetti della nuova presidente “l’innovazione potrebbe subire un rallentamento” e alla fine chi ci rimetterebbe sarebbero i consumatori. Che non potrebbe più beneficiare “delle grandi economie di scala”.

Faranno leva sui consumi a basso costo, insomma, per preservare il loro potere. E dunque, il compito della nuova Federal Trade Commission non si presenta facile. È vero che, alla borsa, i titoli delle Big Tech non hanno risentito della nomina, ma tutto fa intuire che si preparano alla battaglia. Alle contromisure.

Battaglia dunque. Ma non sarà l’unica. Perché – contemporaneamente alla nomina di Khan – sul tavolo di Biden è arrivato anche un altro fascicolo. Firmato da più di 50 organizzazioni. Chiedono al presidente di sbrigarsi a nominare anche il Presidente della Fcc, la Federal Communications Commission. L’altra agenzia americana che ha a che fare con le Big Tech, guidata – fino alla caduta di Trump, – da Ajit Pai. Uno degli “uomini più corrotti” della storia americana, al servizio delle Over The Top, capace di smantellare la net neutrality, la legge – uno dei pochi successi di Obama – per la quale tutti gli utenti dovevano essere trattati allo stesso modo. E non – come appunto deciso da Pai – trattati a seconda delle tariffe: se spendi di più hai una connessione più veloce.

E proprio la nomina di un nuovo presidente, che garantirà una maggioranza democratica alla Fcc, è la richiesta delle organizzazioni per i diritti digitali. Che vogliono, subito, il ripristino della net neutrality, vogliono un piano – statale, pagato interamente dal governo federale – per portare la fibra e le connessioni veloci in tutta l’America (pochi lo sanno ma è il paese con le connessioni più lente). E vogliono incentivi per le comunità più disagiate, perché siano finanziati nelle loro case banda larga e computer.

Il vecchio presidente trumpista, è scaduto a gennaio. Sono passati sei mesi. Troppo tempo. Che rivela quanto forti e potenti siano le resistenze non solo al Senato – che deve comunque ratificare le nomine – ma anche fra le fila dei democratici alla Camera dei Rappresentanti. La scelta di Khan però può essere un segnale anche per loro.

 

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