Visioni

L’imperituro sogno americano di Tony Driver

L’imperituro sogno americano di Tony DriverPasquale Donatone in «Tony Driver» di Ascanio Petrini

Venezia 76 Presentato alla Settimana della Critica il film di Ascanio Petrini, tra documentario e finzione

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 4 settembre 2019

Quest’anno gli indizi sparsi qui a Venezia, spesso immagini di grande profondità espressiva e novità formale, che si sedimentano anche molto tempo dopo la visione, essendo già passati un buon Martone e il magnifico Martin Eden di Marcello, finora il capolavoro di tutta la Mostra, e in attesa di un Maresco che non ha mai deluso; lasciano pensare che sia l’anno buono per il cinema italiano, a prescindere se poi il leone d’oro sarà, come sarebbe giusto, di Marcello. E ciò avallato anche dalla presenza di due opere prime: Sole di Carlo Sironi in Orizzonti, che però appare come un film fragile sul piano formale, qua e là sabotato proprio da quegli stilemi autoriali che avrebbero dovuto fortificarlo e che comunque lo ancorano alla categoria del film-da-festival, e soprattutto Tony Driver di Ascanio Petrini, passato in concorso alla Settimana della Critica, sempre più riserva e vetrina – forse pure specchio di certe pratiche produttive internazionali – per un cinema vitale, audace, il più delle volte sperimentale, che però stenta a essere visto altrove (ad esempio nelle sale) e, in questo caso, con compartecipazione di Apulia Film Commission e MIBAC.

FILM IBRIDO, tra documentario e finzione, ammicco ai generi (il western dei deserti sabbiosi, il poliziesco di asfalti, sirene dispiegate, radio gracchianti nel mezzo di ronde, lancianti coordinate spaziali, tant’è che per qualche secondo vengono in mente Sicario e Soldado) e indagine antropologica, fors’anche frenologica: la scena è tutta per il mattatore Pasquale Donatone che detta i tempi, anzi gli spazi; personaggio (che coincide con la persona, con se stesso di stanza a Polignano) nervoso, scattante, dalla mente irrequieta, proteiforme rispetto ai contesti che gli si parano davanti, che cerca di tornare negli Stati uniti da cui è stato deportato in Italia (suo paese d’origine), colpevole di traffico di migranti messicani. I quali del resto hanno voce e volto, senza retorica, attraverso lo sguardo premuroso di Petrini e la fotografia luminosa, di Mario Bucci, in nome di una sorta di fenomenologia della nostalgia; di una cognizione degli spazi d’esistenza, di sopravvivenza; di una teoria dello spostamento, della migrazione (e la questione è ovviamente anche politica): quella fosca inquietudine connaturata allo sradicamento, tanto più se coartato, all’assorbimento dei luoghi, delle sue forme. Pasquale pensa, definisce il concetto di radice e degli spazi che ne derivano, delle forme (strade, palazzi, bar, slavati o abbagliati) in cui l’individuo deve, vuole muoversi per una questione ontologica, identitaria, non per un vezzo: e il film allora è l’occasione che Donatone ha di praticare l’America, dentro, nella densità della materia cinematografica.

E DI TORNARE a parlare inglese (mentre prima, nella periferia di Polignano, come fosse prateria texana, era tutto un impasto di dialetto, italiano, inglese, tant’è che ti viene da pensare alla ticchetta dell’Italy pascoliano), a parlare di Stati uniti fino a lambirli nel momento in cui arriva in Messico, da cui vi si protende, si slancia verso l’imperituro sogno americano, come in sogno, il sogno cinematografico intriso di luce, un miraggio dettato dallo spazio incandescente e oscillante del deserto.

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