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Lilia Hassaine: «Accusano questi giovani di non sentirsi francesi, ma volevano cacciare i loro padri»

Lilia Hassaine: «Accusano questi giovani di non sentirsi francesi, ma volevano cacciare i loro padri»La scrittrice e giornalista Lilia Hassaine

L'intervista La scrittrice e giornalista - autrice di «Sole amaro» per e/o - nata nella periferia di Parigi parla della crisi delle banlieue. «Nel mio romanzo torno sui fatti del ’61 quando gli algerini di Parigi che manifestavano pacificamente per l'indipendenza furono gettati nella Senna. Una vicenda che pesò a lungo sugli algerini in Francia. E ancora per la generazione dei miei genitori, prima di tutto c'era la discrezione, non bisognava farsi notare»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 5 luglio 2023

Il nome e il volto di Lilia Hassaine sono noti in Francia. Giornalista televisiva e autrice di due romanzi, L’œil du paon e Soleil amerSole amaro, tradotto lo scorso anno da e/o, se ne è parlato sul manifesto dell’8 marzo di quest’anno – che ha venduto oltralpe oltre 35mila copie, appartiene alla «terza generazione» di algerini francesi ed è cresciuta nella periferia di Parigi.

Lei è nata a Corbeil-Essonnes dove in questi giorni, specie nella zona di edilizia popolare dei Tarterets, si sono verificati scontri e violenze in seguito all’uccisione di Nahel da parte della polizia. Cosa prova di fronte a ciò che sta accadendo?
La sensazione che le cose stiano peggiorando. La comunicazione tra la polizia e i giovani delle periferie è sempre più difficile. In queste zone gli agenti sono sempre più tesi e i ragazzi sono costretti a subire ogni giorno controlli in base al colore della loro faccia. La situazione è così sempre sul punto di infiammarsi. La morte di un diciassettenne è ingiustificabile e, nei disordini che ne sono seguiti, nei giorni scorsi, un incendio ha provocato la morte di un vigile del fuoco di 24 anni. Mi chiedo come – in un paese come la Francia – si sia potuti arrivare a questo, e perché nulla sembra essere cambiato rispetto agli scontri del 2005.

Si ha l’impressione che in Francia si parli delle banlieue (definizione che per altro contiene molte cose diverse) solo a proposito degli émeutes: ma cosa significa crescere in una zona come quella in cui siete nata, a quasi 30 chilometri dal centro di Parigi?
In effetti è vero che dire «banlieue» significa parlare di tante realtà diverse. Io, ad esempio, a differenza dei miei genitori che negli anni ’70 sono cresciuti in una zona di case popolari, ho vissuto sì in periferia, ma in un sobborgo residenziale. Ho vissuto in un quartiere tranquillo, in una casa con il giardino, e non posso dire che questo non abbia rappresentato une chance in più. Tuttavia, quando sono arrivata a Parigi mi sono resa conto del divario che esisteva tra il «mio mondo» e la «vita parigina». I mie i amici di lì non volevano venire in periferia a causa dei pregiudizi che avevano sulla violenza di quelle zone.

Le vittime delle cosiddette «bavures» delle forze dell’ordine sono in gran parte giovani francesi le cui famiglie sono emigrate dal Maghreb come dall’Africa. Già negli anni ’90 il giornalista Fausto Giudice aveva pubblicato un’indagine («Arabicides», La Découverte) in cui raccontava quale sorte potesse toccare a questi giovani. La sua famiglia viene dall’Algeria, come vive questo clima?
Non a caso, nel mio romanzo Sole amaro torno su una vicenda avvenuta nell’ottobre del 1961 quando gli algerini di Parigi che manifestavano pacificamente per l’indipendenza furono gettati nella Senna. Questo episodio, nascosto a lungo dalle istituzioni (fu Hollande il primo a rompere il silenzio nel 2012, ndr) segnò profondamente gli algerini di Francia. Io che appartengo alla «terza generazione», sono nata in Francia da genitori nati in Francia, credo di essere stata abbastanza risparmiata da tutto ciò, ma per i miei genitori, la regola era ancora «la discrezione»: prima di tutto non bisognava farsi notare.

In «Sole amaro» raccontate la storia di un algerino selezionato nel suo villaggio dai reclutatori della Renault per le officine di Boulogne-Billancourt e poi raggiunto a Parigi dalla propria famiglia. Quando gli emigrati che hanno contribuito a costruire la Francia sono diventati dei «nemici» e i loro figli un «pericolo» per la società?
Ho scritto questo libro proprio per capire come tutto è cominciato. Negli anni ’70, con l’aumento della disoccupazione e la crisi petrolifera, lo Stato iniziò a considerare gli immigrati come «un eccesso» nella società francese. Arrivarono ad offrire fino a 10mila franchi per l’«assistenza al ritorno» per incoraggiare gli immigrati che volevano tornare «a casa». Per molti figli di immigrati, nati in Francia, era la prova che non erano considerati francesi a tutti gli effetti. E pensare che ora vengono criticati per non sentirsi abbastanza francesi…

Come già accaduto in altre simili tragedie, ancora una volta dopo la morte di Nahel, sembra che intorno alla banlieue si crei un circolo vizioso di repressione, abuso, violenza. Eppure si tratta di quartieri dalla forte vita associativa e ancora nel 2018 proprio Macron incaricò Jean-Louis Borloo di elaborare un piano per affrontarne i problemi, ma poi scelse di non applicarlo. Da dove cominciare per cambiare le cose?
Il piano Borloo non è mai stato minimamente preso in considerazione da Macron. Del resto, molti politici si interessano delle banlieue solo durante il periodo elettorale… E questo è il vero problema: le periferie non sono considerate. Abbiamo concentrato negli stessi luoghi tutte le difficoltà. Un maggiore mix, sociale ed etnico – come avveniva negli anni ’60 – sarebbe già un buon punto da cui partire per migliorare la situazione.

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