Sembrava una scena vista mille volte, quella dell’ultimo viaggio di Diego verso il cimitero. Una costellazione di luci delle moto della polizia, le auto bianche del servizio funebre, e centinaia di scooteroni, motociclette e motorini, un fiume di gente, anche in auto, a scortare il feretro sull’autostrada. Persone schierate sui ponti, sui muri e lungo la strada, si sentivano urla e cori d’incitamento, clacson a distesa. C’erano bandiere e striscioni, moltitudini affacciate sui cavalcavia che scattavano fotografie, alcuni applaudivano, altri cantavano l’inno dell’Argentina.

DALLE PARTI di Fuorigrotta, dopo ogni vittoria importante, il pullman del Napoli – all’epoca del primo scudetto – andava avanti a passo d’uomo, protetto dalla staffetta delle forze dell’ordine contornate da uno sciame di motorini e due ruote rumorose, tra cori e urla d’incitamento, nel suo avvicinamento allo stadio. Quello stesso gruppo di insetti volanti che andavano a «disturbare» il sonno degli avversari, sotto l’hotel del lungomare o della collina del Vomero, la notte prima della partita, il gesto malizioso dei ragazzini e degli ultrà. Ora tutta una città, Napoli, coi suoi insormontabili problemi, coi suoi difetti secolari, rispettosamente scivolata in un profondo cordoglio, nel trattenere il respiro incredula, nei migliaia di feticci azzurri – magliette, bandiere, striscioni, fotografie, disegni – portati in pellegrinaggio come ex voto e dispiegati sui cancelli esterni dello stadio. Di tutti gli immensi fardelli caricati sulle spalle del zurdo inmortal, il più duro era quello di riscattare l’immagine della capitale del mezzogiorno, di ridare orgoglio e dignità all’esercito di riserva degli ambulanti, dei precari, dei senzalavoro, di far vincere il sud del mondo contro gli impomatati e rispettati affaristi della Fifa. «Era un artista, tutto ciò che ha fatto in carriera è stato bellezza pura che non potrà mai essere eguagliata – ha dichiarato el loco Marcelo Bielsa, suo connazionale, attualmente al Leeds United, allenatore maniaco che sembra venir fuori da un racconto di Soriano- Non averlo qui con noi porta una grande tristezza, perdere un idolo è una cosa che fa sentire deboli. L’idolo ti fa credere che tutti potremmo essere capaci di fare quello che fa lui. È per questo che la perdita di un idolo è sempre sofferta di più dagli ultimi, dagli esclusi».

NEL DILUVIO di immagini, televisive e dei social, del suo allenamento da foca – con la spalla, col tacco, col collo del piede, sfera incollata alla testa – prima di Bayern-Napoli e delle partecipazioni alle feste popolari (nel bel documentario di Kapadia, prodotto da Netflix, intitolato col suo nome, con le immagini inedite girate nel settennato partenopeo dalla Maradona Productions, Diego in auto coi camorristi della famiglia Giuliano a salutare un’inaugurazione di un club, senza nemmeno scendere dall’auto, con un volto malinconico e sfatto) si fa largo la sua difficoltà a saper gestire la fama, ad accettare la pressione dell’amore morboso di una città che gli impedisce anche una passeggiata, di un’asfissiante idolatrìa trasformata in dorata prigione. «In allenamento già vedevi che era in grado di fare cose con una semplicità e facilità sconcertanti- racconta Luca Ferlaino, figlio del presidente di allora, in un’intervista – Scommetteva con tutti: dal segnare 30 rigori consecutivi a centrare la porta da centrocampo o qualsiasi altra posizione del campo. Non solo: lì capivi la sua importanza nello spogliatoio. Ma in allenamento spingeva tutti a superare i propri limiti. Ti faccio un esempio: quando arrivò Zola, spesso giocavano Maradona, Zola e Careca contro tutti. Maradona invitava Zola a tirare da centrocampo. Zola diceva: «Ma come, Diego, devo tirare da qua?». E lui rispondeva: «Ma sì, è facile, appena superi il centrocampo prova a tirare in porta». E così era, era impossibile dirgli di no”. Solo nell’afrore della cancha, sia lo stadio con ottantamila spettatori o il campetto fangoso con gli amici espatriati, Diego accende il suo Io profondo, inimitabile giocoliere che non perde mai il contatto con la palla, virtuoso incommensurabile in grado di superare qualunque avversario, in questo autentico erede di Omar Sivori, altro talento geniale, uno sperpero di sapienza pedatoria persino fine a sé stessa, scartarne due o tre di seguito per puro piacere. Col testimone passato a Leo Messi, anche lui in grado di seminare avversari nelle sue imprevedibili accelerazioni, mentre Paulo Dybala, pure lui dotato di fantasia pallonara, abile nello smarcarsi, ha più istinto per il tiro mirato, piazzato, sognato. Tutti figli di quel paese, sul fondo dell’America del Sud, con 45 milioni di abitanti e oltre la metà d’origine italiana. Con un quartiere la Boca, nato in ricordo dell’antica patria e oggi assai turistizzato.

«NON RICORDO nell’ultimo secolo un lutto cosi condiviso, dall’Argentina alla Somalia alla Serbia. E mentre il mondo è diviso dal Coronavirus, arriva quest’uomo, questo Dio caduto e compassionevole che ci riunisce di nuovo e ci fa piangere – confessa Emir Kusturica, regista di un’altra famosa narrazione cinematografica tutta concentrata sulla stella di Lanus, datato 2008 – Il mio film parla di vicinanza. Nell’anno in cui abbiamo lavorato insieme, siamo stati davvero vicini, tra di noi è esplosa subito la chimica. Venivamo entrambi dalla strada, dalle periferie, io da Sarajevo e lui da Buenos Aires e conoscevamo la difficoltà di crescere e sopravvivere ai bordi delle città».
Forse l’ultima immagine, non è il bambino della villa affianco che lo apostrofa Hola Diego mentre il corpaccione, tenuto da due infermieri, risponde al saluto con un gesto del braccio. O la figlia Dalma che scoppia in lacrime nel palchetto della Bombonera dove vedeva le partite col padre quando gli Xeneizes, i giocatori del Boca Juniors, tutti col nome Maradona sulla maglia, sono andati a festeggiare il gol vincente di Cardona contro il Newell’s Old Boys posizionandosi sotto la tribunetta e alzando al cielo la maglia numero 10. Meglio ricordarlo, in una clip di Kusturica (milioni di visualizzazioni su Youtube), ad un certo punto, el diez sorridente canta il brano La mano de dios, scritto da Rodrigo Bueno, insieme all’autore e ai musicisti: «Carga una cruz en los hombros por ser el mejor /por no venderse jamás al poder enfrentó» (Porta una croce sulle spalle /per essere il migliore / per non essersi mai venduto /al potere che affrontò), il parvenu arrivato a desco dei potenti ma che rovesciò il tavolo. La canzone dove il coro e il pubblico accompagnano l’andamento scatenandosi nello slogan da stadio Maradò/Maradò/ Maradò/Maradò. Adios dispensatore di gioia a tutto il mondo, uomo esagerato nel fare il bene (e tenerti per te tutto il male), adios inolvidable amigo (come lo chiamava Fidel).