Per Camila Fabbri, graziosa quindicenne di Buenos Aires, la sera del 29 dicembre del 2004 doveva rappresentare una sorta di rito di passaggio: per la prima volta sarebbe andata a un concerto rock con gli amici e senza la sorveglianza degli adulti, in una grande discoteca chiamata República Cromañón, inaugurata da poco e considerata un luogo tranquillo e amichevole, destinato all’esibizione di band alternative.

Un avvenimento destinato a diventare un ricordo entusiasmante, se nell’affollatissimo locale, la sera dopo, non fosse scoppiato un incendio che per una serie di gravi imprudenze (misure di sicurezza inesistenti, materiali infiammabili, un’uscita di sicurezza sprangata) provocò la morte di centonovantaquattro persone, tra cui Victoria, una delle amiche di Camila.

La scrittrice Marina Closs

LA STRAGE ebbe gravi conseguenze sociali e politiche (il capo di governo della capitale, Aníbal Ibarra, fu destituito in seguito alle proteste) e, ovviamente, segnò moltissime vite, compresa quella di Camila, sfuggita per un soffio alla tragedia e, da allora, alle prese con timori spesso presenti nelle opere della drammaturga, regista e scrittrice che oggi è diventata. A quella notte Fabbri ha infatti dedicato El día que apagaron la luz (Seix Barral 2019), un testo a metà tra narrativa e cronaca, ma anche Clara se pierde en el bosque, film recentissimo (il suo primo come regista) accolto assai bene dalla critica, e infine il racconto «Paesaggio con ambulanze», uno dei diciassette riuniti in Sani e salvi (Alessandro Polidoro, pp. 176, euro 16) e ben tradotti da Carlo Alberto Montalto, che segnano il debutto italiano di questa autrice brillante e insolita, la cui bravura è ulteriormente confermata in La reina del baile, romanzo breve pubblicato l’anno scorso.

L’ombra di piccole e grandi minacce si annida nel titolo della raccolta e nell’epigrafe (due frasi del cantante Charly García a proposito di un suo leggendario tuffo in piscina dal nono piano di un palazzo), come nelle citazioni tratte dai documentari National Geographic che incoronano ogni racconto, annunciando le brevi trame in cui Fabbri esplora potenziali catastrofi di variabile intensità, con una prosa in cui si fondono l’esperienza teatrale, il gusto per immagini nitide e precise, il ricorso a una lingua misurata ma pronta a minime trasgressioni sintattiche, e infine l’abile uso dell’ellisse.

Il tono è sommesso, quasi oggettivo, incline a illuminare gli slittamenti di una quotidianità che diviene improvvisamente instabile e pericolosa, si tratti di una ragazzina infila la mano nel recinto di un temibile alligatore durante una festa in giardino, di una passeggiata allo zoo che vede una vecchia signora inconsapevole reagire con uno sbadiglio alla vicinanza di una tigre in libertà, del viaggio in taxi di ragazza che si trasforma in stravagante rapimento, di un’uscita dall’asilo che restituisce una torma di trentenni alle mamme in attesa dei bambini.

I PERSONAGGI, tuttavia, finiscono sempre per sfuggire alle sciagure che li sfiorano: bambini e animali (figure fondamentali nei racconti di Fabbri), ragazze e donne mature, anziani e madri inquiete si fermano sull’orlo del precipizio per puro caso, per sfacciata fortuna o per cieco istinto di sopravvivenza.

E l’ultimo racconto, così breve da riempire sì e no una pagina (una brevità narrativamente densa è tra i molti pregi di Fabbri), sembra raccogliere i fili di storie diverse, sottolineando le atmosfere che li uniscono: un autobus strapieno si blocca mentre attraversa le rotaie, e i suoi passeggeri, scesi appena in tempo, assistono al disastro impietriti. Sani e salvi, ma fino a quando? Fabbri evita di chiederselo esplicitamente e si limita a lasciar affiorare la visione di un’esistenza precaria ma non priva di possibilità, nonostante allegrie e desideri rischino di venire inghiottiti dal nulla, come lo furono quelli di Christa MacAuliffe, l’insegnante-astronauta morta nell’esplosione del Challenger nel 1986, il cui sorriso entusiasta campeggia sulla copertina dell’edizione in lingua originale di Sani e salvi (Seix barral 2022). Una foto che è allo stesso tempo un tocco dell’umorismo sfumato di nero così congeniale all’autrice, e un sottile ammonimento.

Anche per introdurre un’altra giovane scrittrice argentina coetanea di Fabbri, Marina Closs, di cui gran via propone ora il notevole Tre tuoni (pp. 127, euro 15, traduzione di Amaranta Sbardella) si può ricorrere a due immagini: per prima una foto di lei che posa, bella e seria, davanti a una vecchia credenza che esibisce, posata su un ripiano, una mano umana (di legno, di plastica?) perfettamente riprodotta e troncata al polso, e poi un ritratto fotografico in cui Closs si nasconde parte del volto con le mani, ispirandosi forse a un vezzo tipico di Silvina Ocampo. Il dettaglio straniante della falsa mano, insieme alla volontà di non mostrarsi del tutto, sembrano incitare l’immaginazione del lettore a fare la sua parte e ad accettare l’imprevisto e l’insolito che sono parte integrante della scrittura di questa autrice fuori del comune, nata nel 1990 nella provincia di Misiones, stretta fra i confini di Paraguay e Brasile.

TERRA ANCESTRALE del popolo mbya guaraní, nel corso del tempo Misiones è diventata, sostiene Closs, un luogo dove non si può più parlare di alterità in termini postcoloniali, «perché le identità si sono incrociate al punto che in certi contesti l’Altro non è più davvero tale», e che ha influito potentemente sulle trame e i personaggi dei suoi testi, come i bellissimi Pombero e La despoblación (entrambi del 2023).

In Tre tuoni sono raccolte tre potenti novelle, tre monologhi di donne differenti, che sin dai titoli – «Cuñataí o della verginità», «Demut o della pazienza», «Adriana o del vero amore» – anticipano temi tradizionalmente legati a ciò che si usa considerare appannaggio del «femminile», ma che qui vengono ribaltati e radicalmente rivisti, disintegrati e ricomposti in modo nuovo. Cuñataí, india dai tre nomi che viene strappata all’infanzia da un matrimonio imposto e violentata dall’assassino di suo marito, espone con furia risentita il rifiuto del sesso e della maternità che le sono piombati addosso senza avviso, e, rimpiangendo la verginità perduta, sceglie una solitudine vagabonda; Demut, giovanissima migrante tedesca che ai primi del secolo scorso arriva a Misiones col fratello, racconta con un’innocenza da Kaspar Hauser la sua storia di incesto e di semplici desideri; Adriana, studentessa e ricamatrice, cerca di interpretare i messaggi che il corpo le invia (la tosse, un continuo senso di soffocamento) e di decifrare la propria sessualità. Tre figure insubordinate, fuori posto, «sbagliate», tre donne che non sono come le si vorrebbe e che cercano di tradurre in parole la propria esperienza, facendo echeggiare voci dalle magnifiche modulazioni orali.

A CARATTERIZZARE ciascun personaggio è appunto la sua voce, che Closs, senza timore di avventurarsi nel territorio della sperimentazione ed evitando ogni sospetto di banalità, crea con una sapienza capace di evocare grandi autrici argentine di generazioni precedenti, come Sara Gallardo o Aurora Venturini, mentre elabora costruzioni singolari e insegue il suono e il ritmo di un linguaggio parlato da chi in esso si sente straniero (per Cuñataí e per Demut lo spagnolo non è lingua madre, e quello di Adriana viene fin troppo spesso troncato da una gola che si chiude).
Una scrittrice autentica, insomma, questa Marina Closs: e non è azzardato pensare che da lei, come da Camila Fabbri, in futuro possiamo aspettarci ancora di più.