L’idea della «vita come desiderio», colta da Turgenev tra amore e distacco
Scrittori russi «Alla vigilia», ritradotto da Mario Caramitti per Carbonio
Scrittori russi «Alla vigilia», ritradotto da Mario Caramitti per Carbonio
Lo strabiliante senso del «femminile» di alcuni tra i maggiori scrittori russi del XIX secolo – la loro capacità di intercettarne la psiche per ritrascriverla in ritratti indelebili – è quasi un cliché. Pochi però (e viene subito in mente Anna Karenina) l’hanno posta al centro dello strumento più formidabile allora a disposizione in Russia per plasmare l’opinione pubblica e le coscienze: il romanzo. Significativo il caso del testo di Ivan Turgenev, ora riproposto al lettore in una nuova, accattivante traduzione di Mario Caramitti: Alla vigilia (Carbonio editore, pp. 202, € 17,00).
Partendo da un brogliaccio di mano altrui datato 1853, l’autore già celebre per le Memorie di un cacciatore era tornato su questo romanzo breve nel 1859, per redigerne la stesura finale a Vichy, dove si trovava a quel tempo. Bollata da Nabokov come la «meno riuscita» delle sue tele romanzesche, attaccata dai critici progressisti di metà Ottocento per la scelta di un protagonista finalmente «eroico» – come da mandato dei tempi – ma non russo (Insarov raffigurava un patriota bulgaro), questa opera di Turgenev centra in pieno col personaggio femminile l’obiettivo mancato con quello maschile: come nel caso del magnifico racconto intitolato Asja, nella persona di Elena Stachova lo scrittore ci consegna una creatura volitiva e appassionata, in anticipo sui tempi (figure emancipate alla George Sand erano davvero rare, nella Russia degli anni Cinquanta di quel secolo).
La sospensione del titolo racchiude più piani: quello storico allude alla riforma che nel 1861 avrebbe abolito la servitù della gleba dopo decenni di dibattiti, mentre quello narrativo prelude alla nuova esistenza di amore e lotta per la patria, immaginata dai due protagonisti – in cui un critico volle intravedere un appello alla liberazione dei russi stessi dai loro «turchi interni» – non senza prefigurare l’imminente fine di Insarov e, verosimilmente, di Elena. Ad essere catturata qui è la quintessenza dell’idea della «vita come desiderio», colta «alla soglia» degli accadimenti attesi, fissata in una narrazione che si arresta al limitare tra amore e distacco, tra felicità e dovere, tra luce e tenebra.
L’opera conserva un fascino intatto per la finezza psicologica e «teatrale» dei suoi dialoghi che, quasi a sostituire gli intrecci, impegnano i protagonisti lungo pagine e pagine; per i suoi scorci paesaggistici, con gli imperturbabili specchi d’acqua di Caricyno, le «radure smeraldine» e tutti i fasci di luce che spiovono sui suoi scenari, in una scrittura filigranata di scintillii e bagliori.
Ma soprattutto si lascia leggere come studio di una figura femminile: la traiettoria di Insarov interessa Turgenev quasi solo in virtù della capacità di attrazione dei suoi ideali su Elena, che, in cerca di una buona causa, fa sua quella dell’esule bulgaro. Natura compassionevole e ardente, si ribella ai ruoli voluti per il suo genere e status e si muove con un’audacia candida, fuori dal tempo e dalle convenzioni («prendimi» – dice a Insarov inaspettatamente), alimentata da una ferrea volontà di forgiare il proprio destino con abnegazione e devozione. Spicca per vivacità, intensità (e capacità di azione) sul terzetto di pretendenti, ognuno chiamato a incarnare un possibile cammino di vita: arte, scienza, burocrazia. Bistratta lo scultore Pavel che rincorre la fama; si appoggia al «filosofo» Andrej e al suo buon cuore di «intermediario»; deride in segreto l’incolore fidanzato proposto dal padre (riuscita figura di melodrammatico cialtrone, che si riscatta solo nel congedo finale dalla figlia).
La sua anima è tutta nelle palpitanti pagine del diario che si dischiudono davanti al lettore intorno a metà romanzo, movimentandone l’andamento con un’autoanalisi fatta di repentini balzi logici, lampi di associazioni mentali, frammentarie e impietose esplorazioni della propria afflizione coronate dall’illuminazione finale: la scoperta di amare Insarov. Lo stream of consciousness di Elena Stachova precede così di tre lustri quello della Anna Karenina alla vigilia del suicidio.
La struttura decolla per aggiunta di medaglioni, con i personaggi che si inseguono tra i giardini e gli interni delle dacie suburbane, o lungo le rive della Moscova, nelle notti di luna, prima che l’azione si sposti nella capitale e poi, nell’epilogo, in una trepida Venezia di aprile, la città di una «meraviglia indicibile» in cui lo scrittore stesso aveva soggiornato nella primavera del 1858, risalendo la penisola da Napoli. È sullo sfondo lagunare che la morte ha la meglio su Insarov (a teatro, la sua tosse di tubercolotico riecheggia quella forzata della cantante che interpreta Violetta in quell’opera «piuttosto volgare» che è la Traviata).
Turgenev carica di significato le pause, gli omissis, gli antefatti non narrati ma rievocati a posteriori (la presentazione del promesso sposo in casa Stachov, ad esempio, un caposaldo della svetskaja povest’ – il racconto di società – del tempo); ma anche il gioco degli sguardi e i gesti delle mani di alcuni personaggi (il tocco delle dita sul tavolo è il Morse di segreta intesa tra i due giovani innamorati ancora clandestini).
La morte aleggia vistosa sul corso del loro destino, prima ancora che lei si dichiari a Insarov: «Tienitelo stretto; tienilo più stretto che la morte» – le dice la strana vecchina in cui si imbatte, nella cappella in cui si è rifugiata dopo che un temporale l’ha sorpresa. Nei capitoli successivi, è tutto un rincorrersi di allusioni funeree. Durante la malattia di Insarov, ma anche dopo la sua temporanea guarigione, il suo viso cadaverico esplicita la contesa tra vita e morte che si consuma sulla sua persona (e mentre l’enigmatico bulgaro sosta «tra le grinfie della morte», lei non fa che ripetere: «se muore, morirò anch’io”).
Senza parere, lo scrittore smaschera poi mali collaterali della società russa del suo tempo, come l’astio che si nasconde dietro le buone maniere mondane: «capita che, incontrandosi sul corso Nevskij, due signori che si conoscono appena si mostrino i denti, contraggano con aria sdolcinata sopracciglia, naso e zigomi, per poi subito, appena si sono allontanati l’uno dall’altro, tornare ad assumere l’espressione di un attimo prima, indifferente oppure cupa, in molto emorroidaria» (dove l’aggettivo enfatizzato in posizione finale è un tributo a Gogol’, a quella sua invenzione nativa che siglava il colorito del protagonista del Cappotto).
Turgenev non è clemente con quella sua Russia in cui «ci sono solo pusillanimi, roditori, amleti da due soldi, eterni scontenti, oscurantisti ottusi come la notte, o parlatori a vanvera inveterati e sbraitatori sordi». Ma alla vita pulsante delle nuove generazioni raffigurate nelle sue pagine rende giustizia ora una traduzione sensibile alla «freschezza, la gioventù, la leggerezza dell’originale», che soprattutto nei dialoghi spazza via ogni gravame depositatosi nei secoli, e in un deliberato moto di avvicinamento all’oggi, poggiato su una ben ponderata strategia complessiva, ci fa riaccostare senza pregiudizi a un’opera che ha ancora molti risvolti con cui sorprenderci.
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