Liberazione, giustizia ed equità nel tempo dell’«ideologia delle transizioni»
Scaffale In occasione del centenario di Enrico Berlinguer, esce per Bordeaux una raccolta dei suoi interventi, dal XII Congresso del febbraio 1969 (in cui venne eletto vicesegretario) alla VII Conferenza delle donne comuniste del marzo 1984
Scaffale In occasione del centenario di Enrico Berlinguer, esce per Bordeaux una raccolta dei suoi interventi, dal XII Congresso del febbraio 1969 (in cui venne eletto vicesegretario) alla VII Conferenza delle donne comuniste del marzo 1984
Mettiamola così: forse è un bene che la fiorente industria delle celebrazioni si sia un po’ distratta dinanzi al centenario della nascita di Berlinguer, giacché la gran macchina degli spettacoli tende a consumare il senso per produrre icone, mentre il magistero politico e culturale del segretario comunista è bene che rimanga al riparo da ogni retorica, per mantenersi vivo e interrogante.
Muove in tale direzione la raccolta di interventi dal titolo Enrico Berlinguer e il progetto di un nuovo socialismo (Bordeaux, pp.137, euro 12), che condensa tutto il suo pensiero, dal XII Congresso del febbraio 1969 (in cui venne eletto vicesegretario) alla VII Conferenza delle donne comuniste del marzo 1984, nella fase della critica al craxismo come tradimento del socialismo operaio.
IL QUINDICENNIO che si stende fra questi termini vede il grande leader impegnato a elaborare una «via italiana socialismo» o «terza via», distante sia dal socialismo reale (incapace di consentire le libertà individuali e collettive), sia dalla socialdemocrazia (abile negli spazi istituzionali ed efficace nella rappresentanza dei ceti già inseriti negli apparati produttivi, ma indifferente alle nuove forme di marginalità, sfruttamento e sottoproletariato, come il segretario spiegò a Scalfari in un’intervista del 28 luglio 1981).
Per Berlinguer non si tratta di predicare una posizione moderata fra gli estremi della dittatura e del liberalismo, ma anzi di prefigurare uno scatto in avanti del socialismo, oltre i limiti delle due forme storiche conosciute, ricordando che Marx nel 1852 aveva fissato la differenza fra le «rivoluzioni borghesi» e quelle «proletarie» proprio nel fatto che queste ultime «criticano continuamente se stesse; ritornano su ciò che sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo», insomma sono costitutivamente mosse a spingere in avanti i propri obiettivi di liberazione, giustizia ed equità, modellandoli sulle novità poste in essere dalla storia.
SE SUL PIANO NAZIONALE questa ricerca è letta come «seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista» (come Berlinguer sostenne su «Rinascita» per il trentennale della Liberazione), nella storia del socialismo si tratta di inaugurare «la terza fase della lotta», dopo quella ottocentesca dell’organizzazione del movimento operaio e dei partiti socialdemocratici e dopo «la seconda fase» della «rivoluzione sovietica».
GIÀ A PARTIRE dal giugno 1976 questa teoria del superamento del «capitalismo in Occidente» assume il nome di «eurocomunismo», accogliendo suggestioni provenienti anche dai comunisti francesi, spagnoli e britannici; i punti di forza di questa dottrina vengono definiti con termini destinati a entrare nel dibattito politico per molti anni, cominciando dal «compromesso storico», sintagma che compare per la prima volta nelle Riflessioni dopo i fatti del Cile, saggio in tre puntate apparso su «Rinascita», fra settembre e ottobre del 1973, ma il cui contenuto – la dottrina di un’«alternativa democratica» che coinvolgesse la grande forza popolare cattolica e sostenesse la crescita della sinistra democristiana – era annunciato, a ben vedere, già nelle conclusioni lette al Congresso del 1969. Poi la «questione morale» e la «diversità» comunista, cioè la denuncia dell’«occupazione dello Stato da parte dei partiti» e la rivendicazione del Pci come baluardo contro la corruzione, il privilegio e gli «immensi costi» economici e sociali che essi comportano.
INFINE L’«AUSTERITÀ», necessaria negli anni della svalutazione della lira, delle crisi energetiche e delle pressioni provenienti dai popoli che stavano affrontando la decolonizzazione. Ma l’austerità non era per Berlinguer un’opzione congiunturale, una necessità di «stringere la cinghia» per ripristinare quanto prima gli stili di vita consueti, bensì un’occasione per ripensare l’ordine economico e sociale del pianeta, secondo un nuovo sistema di valori e una diversa concezione della crescita, che tenesse conto degli equilibri ambientali, del contrasto alle spese militari e della partecipazione femminile ai processi decisionali e produttivi del Paese.
Occorre riscoprire questo Berlinguer ecologista, pacifista e femminista, preoccupato su tutti e tre i fronti, curioso verso la ricerca scientifica in tema di inquinamento e risorse energetiche e alimentari e attento alle conseguenze dell’emancipazione della donna sugli assetti familiari.
Il suo sguardo su tali questioni è tanto più indispensabile oggi, al tempo dell’«ideologia delle transizioni», della sussunzione di argomenti dirompenti in ambito biofisico, giuridico e sociale entro gli inalterati schemi del profitto; laddove, invece, nel comunismo di Berlinguer austerità, ambiente, pace e famiglia avrebbero dovuto essere il campo della battaglia finale allo sviluppo capitalistico.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento