Quando, nel 1961, James Baldwin pubblica la raccolta di saggi Nobody Knows My Name: More Notes of a Native Son, ha appena concluso la sua prima stagione europea, il debutto di quell’auto-esilio che ne avrebbe accompagnato l’intera esistenza, inaugurato nel 1948, quando a soli 24 anni aveva ottenuto una borsa di studio per Parigi anche grazie all’amicizia con lo scrittore Richard Wright. Resterà negli Stati Uniti per circa un decennio, facendo ritorno stabilmente in Francia dopo gli assassinii di Medgar Evers, Malcolm X e Martin Luther King: tragedie che segneranno per molti versi la fine della stagione della lotta per i diritti civili, annunciando un orizzonte d’ora in poi dominato solo dalla violenza. Ma nel 1961, Baldwin non è ancora il testimone per molti versi involontario della rabbia nera, l’autore di La prossima volta il fuoco, uscito nel 1963, dove scrive: «Questo Paese innocente ti ha confinato in un ghetto, e in questo ghetto è stabilito che tu marcisca. Sarò più preciso, perché qui è il nocciolo della questione, è qui l’origine della polemica mia col mio Paese: tu sei nato dove sei nato e hai di fronte a te il futuro che hai perché sei nero, per questa e nessun’altra ragione».

IL LIBRO USCITO due anni prima – e che ora Fandango, che sta riproponendo l’intera opera dell’intellettuale afroamericano nel centenario della sua nascita, presenta nella traduzione rivista e corretta di Giancarlo Cella e Vittorio Di Giuro (pp. 256, euro 19) con il titolo di Nessuno sa il mio nome -, riflette piuttosto la misura della realtà circostante che Baldwin ha scelto di prendere proprio perché lontano dal suo Paese natale, nei viaggi che lo hanno visto attraversare l’Europa per soggiornare soprattutto in Francia, Svizzera, ma anche in Turchia. È nella distanza che è riuscito a stabilire con la società americana che trova la chiave per osservarla in modo più netto, consentendosi una determinazione forse inedita: «In America – scrive nell’introduzione -, tra me e la mia coscienza s’era sempre frapposto il colore dalla mia pelle; in Europa questa barriera era caduta».

Nessuno sa il mio nome

Proprio l’approccio proposto da Baldwin con questo testo può tornare utile per affrontare, attraverso alcuni recenti volumi pubblicati nel nostro Paese, il senso e il lascito di qualche traiettoria esistenziale che ha segnato in maniera indelebile l’immaginario e la memoria afroamericana. L’occasione è la ricorrenza del Black history month che si svolge per tutto il mese di febbraio, dal 1976 negli Stati Uniti e più recentemente in Gran Bretagna e Canada, per ricordare il ruolo e il peso della presenza dei neri in quelle culture nazionali. Circostanza che ogni anno produce un buon numero di polemiche, in primo luogo per l’idea che queste «radici» si possano separare, quasi non costituissero una parte fondante delle rispettive identità, culturali e non solo, ma che rappresenta pur sempre una buona occasione per riaffermare proprio il ruolo decisivo di talune figure cresciute in seno a comunità lungamente oggetto di razzismo, discriminazioni, marginalizzazione.

In questo senso, proprio Nessuno sa il mio nome contribuisce, certo attraverso lo sguardo di un protagonista di una stagione ormai lontana, non solo a riflettere ancora una volta sul lascito enorme del pensiero e dell’opera di James Baldwin, ma a suggerire un possibile buon uso del controverso Black history month. Così, se i saggi raccolti nella seconda parte del libro fanno i conti con il pensiero di André Gide, con il razzismo talvolta implicito di William Faulkner, si misurano con figure quali Ingmar Bergman e Norman Mailer – il celebre critico letterario Alfred Kazin ne parlò come di una «biografia spirituale» nella quale Baldwin definiva il proprio percorso misurandosi con i mondi interiori di altri artisti -, i testi di apertura sono dominati dall’amara riflessione sulla politica della razza e sulla segregazione imposta ai neri dell’America dell’epoca. Ciò che però Baldwin rimarca ostinatamente è che il primo gesto di rivolta da poter mettere in campo riguarda, per quanto paradossale possa apparire, l’accettazione o meno delle regole del gioco. «La questione razziale trova grande spazio in queste pagine – scrive -, ma la questione razziale, specialmente in questo Paese, serve a nascondere i problemi più gravi dell’io. Proprio per questo, ciò che ci piace chiamare “problema ne*ro” è un elemento così radicato, e così pericoloso, della vita americana. Ma la mia stessa esperienza mi dimostra che il rapporto che lega in America bianchi e neri è d’ordine più profondo e passionale di quanto preferiamo credere».

L’APPROCCIO PROPOSTO tra le righe da Baldwin sembra tornare nel confronto tra due figure fondamentali della recente vicenda afroamericana che è al centro del saggio di Gianluca Briguglia, Malcolm X e Martin Luther King. L’ape e la colomba (Einaudi, pp. 280, euro 16). Storico delle dottrine politiche, l’autore muove dall’evidente distanza tra i due personaggi: Martin Luther King, predicatore battista del profondo Sud, seguace della non violenza, fautore dell’integrazione razziale, sostenitore delle promesse della Costituzione americana; Malcolm X, ministro della controversa Nation of Islam, molto ascoltato nelle città del Nord, assertore della difesa anche violenta, nazionalista nero che propugna la separazione delle «razze». Proprio questa evidente dicotomia, l’uomo «del sogno» e quello «dell’incubo» li definisce rispettivamente Briguglia, ricordando come anche i media americani degli anni Sessanta amassero rappresentarli nel segno dell’estrema polarizzazione, si stempera però guardando alle loro traiettorie da una prospettiva più lunga. Del resto, è all’azione del movimento per i diritti civili guidato da King che si dovranno i maggiori risultati: l’abolizione delle leggi segregazioniste Jim Crow, spingendo Kennedy e Johnson a promulgare delle leggi federali in tal senso. E, d’altra parte, come suggerisce l’autore, «Malcolm X nell’ultima parte della propria esistenza ha presentato – a modo suo, beninteso – un ramoscello d’ulivo ai leader del movimento dei diritti civili, ha sottoposto a revisione il proprio pensiero». Ed entrambi, al momento della loro morte, non avevano ancora concluso il proprio percorso e la propria evoluzione: Malcolm X sarà ucciso a 39 anni nel 1965, Martin Luther King tre anni più tardi, anche lui trentanovenne.

GLI ANNI SONO GLI STESSI nei quali Tommie Smith e John Carlos salirono sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi del 1968 e crearono quella che può essere considerata «l’immagine più duratura e avvincente nella storia dello sport e delle proteste». È in questi termini che il redattore sportivo di The Nation Dave Zirin ricorda il gesto degli atleti afroamericani ai Giochi olimpici di Città del Messico, il pugno chiuso guantato di nero al momento della premiazione, nelle prime pagine del libro in cui John Carlos racconta la propria storia: Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo (DeriveApprodi, pp. 174, euro 18, a cura di Dave Zirin, prefazione di Nicola Roggero).

Il percorso di John Wesley Carlos, l’ex velocista statunitense, oggi 79enne, indica quanto e cosa ci sono stati prima e dopo quell’immagine emblematica che ha denunciato agli occhi del mondo il peso della discriminazione razziale negli Stati Uniti. Nato ad Harlem nel 1945, Carlos sfidò il razzismo fin da giovanissimo dopo aver ricevuto in virtù delle sue qualità atletiche una borsa di studio per l’East Texas State University e trovandosi così a sfidare le rigide norme segregazioniste del Sud. Nel 1967 avrebbe partecipato alla fondazione dell’Olympic Project for Human Rights che in un primo momento intendeva boicottare i Giochi del 1968 proprio per denunciare il razzismo imperante nel Paese. Dopo quelle Olimpiadi, avrebbe giocato a football con i Philadelphia Eagles, a calcio in Canada, prima di diventare allenatore in una scuola superiore della California. Il suo gesto a Città del Messico aveva fatto seguito alle mobilitazioni per i diritti civili, alle rivolte urbane di Newark e Detroit e di un altro centinaio di città americane, all’assassinio del reverendo King avvenuto solo sei mesi prima. Oggi, nelle pagine della sua autobiografia, scrive: «Sento ancora il fuoco. Non mi piaceva il modo in cui il mondo era, e credo che ci sia bisogno di cambiare il modo in cui il mondo è».