Leggendo gli argomenti che Carlo Cottarelli fornisce per il suo addio al Pd e al Senato (sempre che l’aula approvi le dimissioni) si rimane esterrefatti. Qualunque persona dotata di raziocinio e onestà intellettuale capisce infatti che nei due mesi dopo le primarie del 26 febbraio non c’è stato nessuno spostamento del Pd verso l’estrema sinistra.

Nessun atto, nessuna proposta di legge. Semmai ci sono state, nella mozione che ha vinto il congresso e poi nelle successive esternazioni di Schlein, delle dichiarazioni d’intenti che puntano a disegnare una nuova agenda del Pd nella direzione della lotta alle diseguaglianze sociali e alla crisi climatica e in quella di uno spostamento di risorse pubbliche e opportunità verso chi ha avuto meno in questi decenni, chi sta nella parte più bassa della piramide sociale. A partire da almeno due generazioni devastate dalla precarietà.

Non si tratta della presa del Palazzo d’Inverno o dell’abolizione della proprietà privata, ma di un programma minimo per una forza di sinistra moderna in questi anni Venti del nuovo secolo preceduti da un trentennio di egemonia di un liberalismo che ha piagato le società occidentali spingendo al governo la destra estrema, non solo in Italia.

Compito di un intellettuale liberale che pochi mesi fa si è candidato come capolista di un partito progressista sarebbe semmai quello di riflettere criticamente su quanto è accaduto dopo l’89, aiutando il Pd a forgiare un nuovo pensiero che sappia coniugare in modo realmente efficace mercato e giustizia sociale, tema che è al centro delle riflessioni liberali in gran parte dell’occidente, laddove l’eccesso di diseguaglianze è visto come un freno alla crescita.

E invece no: Cottarelli affastella nelle sue doléances il meritorio strappo di Schlein sul Jobs Act di Renzi, il termovalorizzatore (che il sindaco di Roma Gualtieri realizzerà), il nucleare (mai entrato nei programmi dem e sonoramente bocciato nel 2011 da un secondo referendum popolare), «l’utero in affitto» (che pure non è mai entrato nel programma del partito di cui è stato capolista) e il «merito», un’altra delle formulette ideologiche che il centrosinistra degli anni Novanta aveva fatto proprie negli anni della sbornia blairiana, come «riformismo», e che oggi non a caso è una delle parole d’ordine della destra di governo.

E lo è per un motivo semplice: favorire ancor più la costruzione di un sistema classista di insegnamento, come avviene da decenni negli Usa e nel Regno Unito. Cottarelli addirittura si dice a favore della gabbie salariali per gli insegnanti proposte dal ministro leghista Valditara e qui davvero si salta sulla sedia.

Viene da chiedersi in quale partito abbia creduto di candidarsi solo pochi mesi fa. O meglio: le sue parole confermano quanto il Pd (nonostante il tentativo di Zingaretti) fosse scivolato lontano dall’abc di una forza progressista. Che oggi più che mai impone scelte chiare contro le diseguaglianze, non solo una vuota retorica, ma una netta cesura con le politiche fatte sul lavoro e nuove idee per rendere il fisco più equo. Il Pd si era spinto così lontano in questo spirito conservatore da far apparire le timide correzioni evocate da Schlein su lavoro, ambiente e diritti come proposte eversive.

Di fatto, le dimissioni dell’ex direttore del dipartimento affari fiscali del Fmi (che doveva essere la «punta di diamante nel nord» di Letta nell’ultima campagna elettorale e invece è stato doppiato da Daniela Santanchè nel collegio della sua Cremona, 53 contro 27%) svela il grande abbaglio in cui il Pd ha vissuto dalla sua nascita: l’idea cioè di poter prendere voti in una società sempre più diseguale aggrappandosi a tecnocrati e banchieri, da Monti a Cottarelli passando per Draghi.

Non era solo un’illusione: in tanti erano consapevoli che la rincorsa ai fantomatici moderati era suicida, ma quel Pd serviva a gran parte dell’establishment italiano e internazionale, che lo ha sostenuto e ora inizia a prenderne le distanze. E non a caso: diminuire le diseguaglianze significa scontentare chi finora se n’è avvantaggiato.

Che questo addio segni per il Pd la fine della sbornia tecnocratica è tutto da verificare. Ma l’agitazione dei cosiddetti «riformisti» interni, da Guerini in giù, uno dei ceti politici più conservatori dell’occidente, è un buon segno. Come lo è l’indifferenza con cui la segretaria osserva queste mosse dedicando assai più energie a confrontarsi con i delegati della Fiom. Un voto in più di una persona di sinistra delusa e sfiduciata vale altri 100 addii di liberali.