Le brutalità della guerra a Gaza sono evidenti anche nelle carceri israeliane, dopo le numerose testimonianze di violenze e torture subite dai prigionieri palestinesi, descritte da quotidiani israeliani come Haaretz e 972mag. Un nuovo inasprimento del regime di detenzione – voluto lo scorso ottobre dal ministro della pubblica sicurezza, Itamar Ben Gvir – si va ad aggiungere alle altre forme di tortura, fisica e psicologica già utilizzate. Pratiche usate anche nei confronti delle donne detenute – attualmente 80 secondo l’ong Addameer – con atteggiamenti che hanno l’obiettivo di «umiliare e mortificare la loro stessa condizione femminile».

Riguardo alla situazione dei prigionieri e, in particolare, delle donne, il manifesto ha intervistato Suaad Genem, in Italia in queste settimane per presentare il suo libro, Il racconto di Suaad. Prigioniera palestinese (Edizioni Q, 2024), che descrive la sua detenzione in uno dei tre periodi in cui è stata rinchiusa in un carcere israeliano (1979, 1983 e 1991).

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L’autrice, protagonista-testimone, ci racconta l’ambiente, la solidarietà, i rapporti affettivi tra le detenute e le torture subite. Il libro è una memoria dal carcere che descrive le lotte delle prigioniere per difendere i loro diritti, i traumi che la prigionia lascia o i ricordi e gli affetti che riaffiorano nei momenti difficili. Genem, ieri a Udine allo Spazio Autogestito di Via Bernardo de Rubeis, oggi alle 18.30 sarà a Trieste al bar-libreria Knulp.

Nella prima parte del libro racconta della sua infanzia e delle continue incursioni e violenze da parte dei militari israeliani.

Le violenze da parte delle forze di sicurezza israeliane erano e sono tuttora una costante nella vita di ogni palestinese che sia bambino, ragazzo o adulto. Entrano nelle nostre case, distruggono qualsiasi cosa con disprezzo, anche gli effetti più personali e intimi. Alle volte cacciano intere famiglie dalle loro abitazioni per il semplice fatto di essere imparentate con un prigioniero, per poi demolirle. La continua violenza con incursioni, spari, grida e minacce è purtroppo la quotidianità che tutti i palestinesi vivono nei Territori occupati.

Nel testo fa spesso riferimento all’importanza della cultura e dello studio per i palestinesi come forma di resistenza, perché?

La cultura è la nostra principale arma di resistenza. Io stessa mi sono laureata in giurisprudenza in Italia e conseguito un dottorato in Diritto internazionale in Inghilterra, con l’obiettivo di difendere i nostri diritti. Israele è uno stato colonialista che mira all’eliminazione del popolo palestinese: delle nostre terre, dei nostri villaggi rinominati in ebraico, delle nostre risorse idriche e della nostra identità culturale. Per questo motivo è importante per noi palestinesi resistere in qualsiasi maniera, anche attraverso lo studio, per preservare la nostra cultura.

Nel libro racconta dell’arresto e della prigionia nel 1983. Perché l’ha scritto e pubblicato a distanza di così tanti anni?

Ho cominciato a scrivere dopo diversi anni anche come forma di «cura», per superare il trauma della prigionia, delle torture e delle umiliazioni subite nelle prigioni israeliane. La mia vuole essere una testimonianza individuale e collettiva. Individuale riguardo alla mia vicenda: il mio arresto al porto di Haifa dopo il rientro dall’Italia, gli interrogatori, le torture fisiche e psicologiche, le udienze e la detenzione. Collettiva perché la mia storia è quella di tutti i prigionieri palestinesi e di quello che vivono nelle carceri israeliane. Quello che ho vissuto negli anni Ottanta resta purtroppo una costante per tutti i detenuti anche oggi, perché il sistema carcerario israeliano mira a eliminare la nostra dignità, fisicamente e psicologicamente.

In alcuni capitoli parla delle lotte dei detenuti all’interno delle carceri. Cosa è stato ottenuto in questi anni?

Il movimento dei prigionieri è uno dei principali esempi di resistenza contro il sistema di repressione israeliano, i prigionieri politici rappresentano la prima linea contro l’oppressione. Le nostre lotte nelle carceri israeliane hanno portato a un miglioramento delle condizioni di detenzione. Negli anni abbiamo ottenuto diverse conquiste: più visite dei familiari e dei legali, migliori condizioni igieniche nelle celle, per il cibo, per poter studiare e per rimanere in contatto con il mondo esterno. Uno dei nostri più potenti mezzi di lotta e vittoria è stato l’utilizzo dello sciopero della fame collettivo, quando abbiamo fatto capire che era meglio morire con dignità, che essere umiliati quotidianamente.

La sua testimonianza è importante come palestinese, come ex prigioniera politica e come donna.

Il mio racconto deve far capire che, nonostante le torture e le umiliazioni, lo spirito di resilienza del popolo palestinese è più forte delle continue violenze e persecuzioni messe in atto dal sionismo. La prigionia è stata durissima con traumi che vivo ancora adesso. Ma allora come oggi resta più forte la voglia di resistere, di vivere e di lottare per quello che sicuramente un giorno avverrà: la liberazione del nostro popolo e della nostra terra, dove tutti potranno vivere senza distinzione di razza, etnia o religione.