Fiori, figure, giardini, paesaggi… Parigi, Ischia, Firenze… Questi i soggetti dei quadri descrittivi ed essenziali, gioiosi e intensi, di Rudolf Levy, (1875-1944). Un’ampia mostra, Rudolf Levy, l’opera e l’esilio, curata da Camilla Brunelli, Vanessa Gavioli e Susanne Thesing, lo ricorda a Palazzo Pitti, fino al 30 aprile.

Fu infatti a Firenze che nel dicembre 1943 l’anziano e acciaccato pittore ebreo tedesco fu arrestato dalle SS. Partirà da Milano per Auschwitz a gennaio 1944; probabilmente morì durante il trasporto. La mostra rivela la penetrazione del suo sguardo, il gusto dei colori accesi, la semplificazione cubista dello spazio.

Era stato allievo e collaboratore di Matisse a Parigi, e ne condivide l’essenzialità formale congiunta alla capacità di far emergere tutto il soggetto con pochi tratti, nonché la gioia mediterranea. Ma si era formato a Monaco ed era stato un protagonista della Secessione di Berlino. Da ciò una aggiunta di drammaticità gotica. Si va accentuando negli ultimi anni, come nel ritratto fiorentino di Fiamma, che la direzione degli Uffizi ha voluto acquistare per la collezione permanente. E culmina nell’ultimo dolente eppure coraggioso autoritratto, un volto accigliato di tre quarti su uno sfondo cupo, 41×33 cm., giunto a Firenze dal museo di Kaiserlautern, che possiede molte opere di Levy e che per l’autunno di quest’anno, l’80° dalla scomparsa, prepara una mostra complessiva.

Quella fiorentina ne è corposa anticipazione con le sue 47 opere e la ricca documentazione (fotografie, lettere, ritagli).

Dal 1933, con l’avvento di Hitler, Rudolf Levy fu esule in Europa e America, e i suoi quadri «degenerati» furono epurati dagli spazi pubblici. La sua prima tappa fu Rapallo, ospite di un amico e allievo olandese in una villa con vista dove realizzò diverse pitture (di cui una in mostra).

In Riviera era ricordato come «Dr. Levy», un uomo grosso dalla voce profonda che non lasciava sospettare la sua omosessualità, bevitore, giocatore, amante della bella vita dei caffè, sereno e pacato come le sue opere. I suoi debiti di gioco erano ben noti. Un personaggio distinto, un maturo maestro. Nel 2021, curando per l’editore Il Canneto una nuova edizione del memoriale di Giuseppe Bacigalupo, mio padre, mi sono imbattuto in un vecchio album in una foto inedita di Rudolf Levy alla Villa Olimpo di Rapallo con il suo ospite Gesinus Visser, un giovane che gli appoggia la testa sulla spalla, un altro personaggio non identificato, e mio padre ventenne con sigaretta. Tutti allegri, in giacca e camicia, gli eleganti del 1933. Una bohème artistica distinta e produttiva. Levy scriveva anche poesie, saggi, testi autobiografici tuttora inediti. Una sua conoscente del periodo di Rapallo ne ricorda la flemma e impassibilità una volta che uno sgabello cedette sotto il suo grande corpo mentre Levy continuava a raccontare e fumare il suo sigaro.

Rudolf Levy, “Autoritratto IV”, 1943, Kaiserslautern (Germania), Museum Pfalzgalerie

Iniziarono così dieci anni di esilio e peregrinazioni. Si stabilì a Maiorca, lasciata quando cadde in mano ai franchisti, viaggiò negli Stati Uniti, a Dubrovnik, a Ischia. In Italia faticava a ottenere permessi di soggiorno, cercò senza successo di emigrare in Sudamerica (a Genova aspettava un visto, denaro, una nave in partenza). Infine a Firenze, dal 1941, dove si trovò bene in una comunità di artisti che avevano per centro la Pensione Bandini nel Palazzo Guadagni di Piazza Santo Spirito. Divenne il suo studio e quando giunse il divieto di dipingere, come soleva, all’aperto, prese a soggetto la piazza con la chiesa e i tetti e i monti sullo sfondo, nonché studi di modelli, ritratti di conoscenti, nature morte, e appunto l’autoritratto ultimo. «Sono sempre stato ottimista, ma comincio lentamente a prevedere cose tremende», scrisse al compagno rientrato in Germania.

Ma fino all’ultimo, il Natale del 1942, gli amici ricordano riunioni vivaci. Infatti non si poteva prevedere l’occupazione tedesca seguita alla caduta del fascismo. Degli artisti tedeschi del gruppo, solo Levy rimase vittima della persecuzione. Fatalista, disse a un amico a proposito di un gruppo di SS in un ristorante: «Non mi lascio intimidire da quei quattro ceffi». Gli fu tesa una trappola da sedicenti collezionisti che lo arrestarono. Il 21 dicembre 1943 scrisse in italiano alla «signorina Bandini»: «Avete saputo la disgrazia che mi è capitata. Sono in prigione alle Murate da più di una settimana. È duro che un uomo di 68 anni che non ha mai fatto male a nessuno di trovarsi in questa situazione. Pazienza».

Gli amici raccolsero quadri e carte, e nel dopoguerra organizzarono mostre per diffondere l’opera di Rudolf Levy e incoraggiarono i musei tedeschi ad acquisire suoi quadri. Nel 1990 uscì la monografia di Susanne Thesing, Rudolf Levy. Leben und Werk. Nel 1995 Klaus Voigt curò a Milano la mostra Rifugio precario sugli artisti emigrati, e in seguito rintracciò opere di Levy a Maiorca e altrove per completarne il catalogo e una biografia rimasta incompiuta. Infine nel 2021 Rudolf Levy ebbe un ruolo di spicco nella mostra documenta. Politik und Kunst al Museo Storico Tedesco di Berlino. Ricostruiva la storia dei documenta (la grande mostra quinquennale di arte contemporanea di Kassel) fra arte e politica. Una curatrice, Julia Voss, interrogava l’assenza nella prima edizione del 1955 di Rudolf Levy e altri artisti ebrei, per quanto il direttore di allora, lo storico d’arte Werner Haftmann (1912-’99), avesse conosciuto personalmente Levy (il Kunsthistorisches Institut di Firenze si trovava proprio a Palazzo Guadagni) ma sembra non sapesse la sua sorte. L’autorevole Haftmann tacque sempre la sua adesione al nazismo, e il ruolo che nella Wehrmacht ebbe in operazioni e interrogatori di partigiani, che Julia Voss documenta.

Fra i quadri esposti nel 2021 nella splendida sede del Museo Storico berlinese era lo studio di un ragazzo con le mani conserte appoggiate a un tavolo, opera rintracciato da Klaus Voigt a Rapallo (ma realizzata a Firenze). Mio padre l’aveva comprato al prezzo di favore di 2000 lire all’inizio del 1943 e aveva scritto all’amico: «Spero che a guerra finita verrai a trovarci e farai un ritratto a Frieda». Così questo quadro fin qui sconosciuto agli studiosi dopo 79 anni ripartì da Rapallo. E proprio — ironia della sorte — per Berlino… Ora lo si può vedere in mostra a Pitti. Vicino ai ritratti e paesaggi coevi la profondità malinconica dello sguardo e del gesto in questo Ritratto di giovane si apprezza pienamente.