Nella sua trilogia ucronica di inizio millennio – La giornata di un opricnik, Cremlino di zucchero (Atmosphere, 2014 e 2016), La tormenta (Bompiani, 2016) – Vladimir Sorokin dipinge una Russia regredita, al di là dei dettagli ipertecnologici, a un medioevo di fatto, retta da uno scialbo dittatorello ormai indistinguibile dai suoi ologrammi, completamente vassalla della Cina e separata dal resto del mondo da una ciclopica nuova Grande Muraglia. I lettori restavano perplessi di fronte al fatto che questi rivolgimenti fossero collocati già al 2027. Dalla sera alla mattina sono diventati adesso uno degli scenari più preventivabili della folle avventura putiniana.

Fin dalle primissime ore dell’invasione gli intellettuali russi hanno avvertito una straziante lacerazione, un vulnus da subito secolare, uno sfacelo degli orizzonti sistemici che tutto travolge e lascia presentire ogni tragedia, inclusa la disgregazione della Russia stessa. E ancora Sorokin, in Telluria, tappa successiva del suo affresco di storia alternativa, ha descritto una Russia smembrata in decine di staterelli, dalla Moscovia al principato di Rjazan’ a una Unione Sovietica riformata sugli Urali. Qui, per la verità, i pronostici sono altrettanto tragici, à la Houllebecq e oltre, per l’intera Europa postatomica.

Tagliati fuori dal presente
Non è il caso, tuttavia, di azzardare pronostici. La letteratura russa in tutta la stagione postsovietica ha avuto come ispirazione quasi esclusiva la storia. Tagliati fuori dal presente, privati della loro secolare centralità nel processo culturale, gli scrittori giocoforza hanno provato a rendere conto di ciò che la società si rifiutava di affrontare. Settanta anni di illusione utopica, fermento ideologico divenuto dogma pietrificato, in nome del quale erano stati compiuti crimini atroci, inizialmente messi in discussione durante la perestrojka, sono come scomparsi dal dibattito già nei primissimi anni di Eltsin.

Il paese è stato invaso dalla prassi quotidiana capitalista e consumista senza che nulla venisse compreso, spiegato, rielaborato, in merito al proprio passato. Oggi, come ha detto il grande regista Aleksandr Sokurov in un’intervista di sapienziale tragicità, quell’enorme baratro culturale con il resto della società occidentale, mai colmato da una benché minima damnatio memoriae, neppure dello stalinismo, è la causa prima dello sconcertante sostegno a Putin della maggioranza silente.

È attorno a questo macigno irrisolto sospeso sulla coscienza collettiva che si è fatta sorprendentemente mainstream la rimodulazione romanzesca di interi strati storico-culturali, che stacca e ricongiunge a piacimento passato e futuro come placche tettoniche. Le innumerevoli derive fantastoriche scaturite vanno dalla Mecca moscovita di Andrej Volos alla nuova Costantinopoli del Morso dell’angelo di Pavel Krusanov, ora con divertite macedonie interculturali, ora in pura salsa patriottica; il solo Stalin, protagonista per eccellenza, si guadagna una galleria di amanti che va da una paronimica Madame de Staël (in Prima e durante di Sharov – Voland, 1996) a Chrušchev in Lardo azzurro (ancora Sorokin), con un’esplicita scena di sodomia che già nel 1999 suscitava le ire dei «benpensanti». L’intero filone, soprattutto nelle propaggini più epigoniche, oscilla costantemente sul confine della letteratura di genere, disinvoltamente superato, in una più prevedibile variante postapocalittica, da Dmitrij Gluchovskij, lo scrittore russo più letto al mondo, il cui fortunatissimo ciclo di romanzi Metro 2033 (Multiplayer, 2020) riecheggia oggi con sinistra specularità quando un’intera città di un milione e mezzo di abitanti come Char’kov cerca rifugio nelle stazioni sotterranee.

Solo nello scorso decennio l’insolubile vuoto di identità di una cultura non più capace, come sempre da Lermontov in poi, di cercare l’eroe del proprio tempo, ha innescato con insistenza via via maggiore uno scavo della memoria recente, con almeno due esiti di altissimo livello: la saga familiare densa e allucinatoria di Aleksej Sal’nikov La febbre dei Popov e altri accidenti (Brioschi, 2020), in forma di ponte a cronologia reversibile a cavallo dell’era sovietica, e la sfida della poetessa Marija Stepanova a cercare le proprie radici decostruendo il genere stesso della narrazione biografica in Memoria della memoria (Bompiani, 2020). Prevale però un più convenzionale romanzo storico, pur con vistosi ancoraggi al presente; e come mosche al miele gli intrecci convergono sui lager staliniani, travagliato nodo della coscienza collettiva in Giustificazione di Dmitrij Bykov; ma convergono anche in imbarazzanti tentativi di rendere ordinario l’inumano: i carnefici gentili di Guzel’ Jachina in Zulejka apre gli occhi (Salani, 2017) e romanzi successivi, che qua scuoiano, là salvano, poi innamorano di sé, in inquietante miscela, anche di generi: o, ben peggio, il vissuto integrale del lager trasformato in canovaccio per storie d’amore e riflessioni filosofiche nel Monastero (Voland, 2017) di Zachar Prilepin.

Costruzione del consenso
Oggi Guzel’ Jachina inorridisce di fronte alla guerra, mentre Prilepin dal 2014 imbraccia in prima persona il mitra nel Donbass, ma in tutto parallela è la loro partecipazione a un tentacolare sistema di costruzione del consenso e annichilimento della consapevolezza individuale, che nella prima e determinante fase ha poggiato su ben più influenti mezzi – TV, Internet, manuali scolastici – e solo a campo sgombro torna, per antico vezzo, a interessarsi della letteratura.

Il progetto che ha traghettato gattopardescamente un intero gruppo di potere dall’impero in dissoluzione al revanscismo odierno ha radici profonde. Agli esordi c’era l’ignoto agente del KGB Vladimir Putin divenuto, prima ancora che tramontasse l’Urss, vice del primo sindaco dell’allora Leningrado liberamente eletto, il noto dissidente Anatolij Sobcak; c’era la prima Duma postsovietica riempita di partiti di cartapesta, i cui leader sconfitti per trent’anni – il buffone nazionalista Žirinovskij, lo pseudocomunista Zjuganov – sono ancora oggi in carica a congelare consensi intorno al «partito del potere» che, cambiando via via nome, si è consolidato nel nuovo partito unico, Russia unita; c’era l’idea di democrazia sempre più vilipesa e screditata, associata alla truffaldina privatizzazione e, con un vergognoso pun ormai vox populi, equiparata alla merda; ci sono state impressionanti campagne mediatiche capaci di far rieleggere nel 1996 Eltsin che partiva da un gradimento del 5% e annichilire nel 1999 il sindaco di Mosca Lužkov, potenziale rivale di Putin.

Ci sono stati, sempre nel 1999, tre enormi palazzi fatti saltare nel cuore della notte con tutti i loro abitanti, imputati, in barba al più elementare cui prodest, ai ceceni cui Putin andrà a dichiarare la sua guerra d’investitura; insomma c’è, o meglio c’era, una regia occulta di lunghissimo corso che «scriveva la storia» con orientamenti e intendimenti in tutto letterari, come un canovaccio a più voci, come un testo; può sorprendere, ma solo fino a un certo punto, che questo Grande grafomane abbia tanto in comune con il personaggio del Grigio nell’Enciclopedia dell’anima russa (Spirali, 2007) di Viktor Erofeev, o che uno dei maggiori indiziati in quanto testa dell’idra occulta, il politologo Vladislav Surkov, non abbia saputo resistere, in ossequio all’eterno mito russo del poeta fulcro della società, alla tentazione di farsi lui stesso autore, con il trasparente pseudonimo del cognome della moglie – Dubovickij – di pastiche postmoderni truci e ammiccanti a arcani poteri (Vicinoallozero è uscito anche in Italia – Feltrinelli, 2011).

Una volta smantellata ogni parvenza di pluralità nelle istituzioni e nei media il ruolo dei tessitori occulti si è fatto sempre più marginale, vettore primario della propaganda sono divenuti un nugolo di remuneratissimi presentatori che in programmi di vario taglio, più virulento o più apologetico, prospettano da una decina d’anni una realtà integralmente falsificata, onnicomprensiva e in tutto esaustiva.
Fondato su categorie come «dittatura della legge» e «democrazia sovranista», l’intreccio secondo cui Putin trama la storia è sempre più monocorde, imbastito di uno sciovinismo in sé del tutto estraneo allo spirito dei russi, di un sincretismo pacchiano di grandeur zarista e sovietica, quest’ultima declinata essenzialmente in chiave di trionfo sul nazismo, al quale la paradossale grafomania di stato è riuscita a intitolare perfino le feste rivoluzionarie di novembre (tutto, del resto, agevolmente pronosticato già nel 1984 dal testo capostipite della fantastoria, la Palissandreide di Saša Sokolov – Atmosphere, 2019).

Lo zar, più o meno nudo, è oggi evidentemente solo, a rispecchiare un altro mito culturale russo, il «ruolo della personalità nella storia», sulle orme di Pietro, ma anche di Ivan il Terribile e di Stalin: in possesso sempre più dubbio delle proprie facoltà fisiche e mentali, gli scarabocchi sui manuali di storia li fa adesso a ditate, col calamaio sempre più in bilico.

Dovendo, come tutti al mondo, solo sperare in fausti concorsi di contingenze, nel loro piccolo i russi pensanti si sono schierati in stragrande maggioranza contro la criminale aggressione di un popolo fratello. Fatti salvi, come dicevamo, Prilepin e un sempre più coperto d’infamia Michalkov non c’è scrittore, artista, regista di qualche fama che – pur nel distinguo non indifferente tra ferma condanna e silenzio – abbia aderito alla guerra di Putin. Nelle loro esternazioni che coagulano ogni sfumatura della disperazione e dell’angoscia – a riassumerle in un instant book avremmo il più autentico ritratto della Russia di oggi – prevale di gran lunga, al di là di una minoritaria presa di distanze dalla «guerra non mia», una consapevolezza autenticamente tragica di colpa collettiva che potrà gravare per generazioni. Anche in questo caso la memoria letteraria ha già in serbo l’ideale controcanto: all’epoca della prima, incompiuta destalinizzazione, Julij Daniel’ – protagonista nel 1965, assieme a Sinjavskij, di un epocale processo per crimini di penna – ha scritto lo sconcertante racconto «Espiazione» (Bietti, 1966), il cui protagonista, in tutto innocente, si vede additare da un reduce dei lager staliniani come il delatore responsabile del suo arresto, ed è inesorabilmente travolto dal vortice della deplorazione collettiva; la strana atmosfera del testo, che allora sembrava distopica, è di nuovo, oggi, presaga.