L’alleanza col M5S non si tocca. Sia se resterà questa legge elettorale, che costringe alle coalizioni prima del voto, sia se ci sarà una modifica in senso proporzionale. In quel caso, il campo largo di Letta- che in teoria va dalla sinistra di Fratoianni fino a Calenda, sarà l’unico schema praticabile dopo le urne. Non certo un nuovo governissimo con la Lega, o peggio con Fratelli d’Italia.

Enrico Letta chiude la direzione Pd incassando un voto unanime. Segno che i nostalgici di Renzi, dall’ex capogruppo Andrea Marcucci al sindaco di Bergamo Giorgio Gori, non contano più nulla. Il corpaccione ex renziano si è allineato al nuovo capo, più per convenienza che per convinzione.

Letta si rivolge soprattutto ai grandi gruppi editoriali, ai poteri forti, che un giorno sì e l’altro pure danno per morta l’alleanza con il M5S. E auspicano un ritorno di Draghi a palazzo Chigi anche dopo le elezioni, sostenuto dai dem con Lega e Forza Italia. «Nella prossima legislatura andremo al governo solo se vinciamo, se gli italiani votano per gli altri si terranno Salvini e Meloni. La nostra sarà una proposta di governo chiaramente alternativa a queste destre».

Due passaggi non proprio scontati, quelli del segretario Pd. Cui si unisce una spinta forte, per la prima volta, a favore del cambio della legge elettorale, con l’appello rivolto agli altri partiti ad «aprire un tavolo per le modifiche». L’ipotesi è un proporzionale corretto di tipo spagnolo, che possa tutelare il bipolarismo. «Si deve fare non perché intendiamo cambiare le alleanze», dice il leader Pd.

Un concetto condiviso con forza da Dario Franceschini: «L’alleanza con il M5S non è una condanna o un obbligo di questa legge elettorale: è una scelta strategica che per allargare l’area riformista che prescinde dalla legge». «C’è una sensibilità comune sul tema della lotta alle disuguaglianze», gli fa eco dal Marocco Andrea Orlando.

Nella sala ai piani alti del Nazareno non si odono brusii: la linea è questa è non cambierà, neppure se Conte (mai nominato nella relazione) dovesse continuare a puntare i piedi contro l’invio di armi a Kiev. «L’autosufficienza è un segno di debolezza, non di forza», dice Letta. «Ci vorrà molta pazienza», avverte un veterano come Piero Fassino.

E Letta apre alle richieste del capo 5S dicendo che va bene discutere ancora in Parlamento, «dalla discussione arriverà nuova energia e linfa». Così come, parlando di Svezia e Finlandia, ribadisce che «la costruzione della nuova architettura europea spetta alla Ue, non alla Nato».

Sulle armi la sinistra interna soffre, «dobbiamo essere il partito della pace», invoca il giovane segretario del Pd di Napoli Marco Sarracino. Politicamente, la sinistra interna incassa il cambio di toni di Letta, più tesi al dialogo e alla soluzione diplomatica rispetto a qualche settimana fa. Distinguo si levano sulla questione dell’aumento delle spese militari, con l’europarlamentare Pierfrancesco Majorino che va giù netto: «Su questa cosa dobbiamo discutere, non ho condiviso le scelte fatte».

Alla sinistra dem piace molto anche lo slancio ritrovato da Letta sui diritti civili e sulla questione sociale, con il doppio impegno, entro fine legislatura, a dare battaglia sul ddl Zan («anche a costo di strappare») e ad approvare norme su welfare, lavoro e salari «che lascino una traccia storica» «Sono questioni su cui abbiamo occasioni uniche nei prossimi 10 mesi. Dobbiamo fare del tema della precarietà, della protezione delle parti più in difficoltà l’obiettivo principale della nostra azione». Salario minimo e modifiche radicali al Jobs Act sono i primi passi. «Il Paese va salvato da una crisi economica e sociale rischiosissima».

Sui referendum «l’orientamento è quello di votare no», ma «non siamo una caserma». «Tutti 5 referendum creano più problemi di quanti ne risolvono», spiega Letta, citando l’allarme di Valeria Valente sul quesito che riduce le misure cautelari: «Se vincesse il Sì sarebbe più difficile proteggere le donne a rischio di femminicidio».