«Non mi pento di essere tornato da Parigi, esco da questa esperienza più innamorato del Pd di quando ho iniziato il lavoro da segretario». Enrico Letta dà l’addio alla guida del partito senza tradire il suo stile da signore: «Amarezze e ingenerosità le tengo per me, dopo il 25 settembre è stato un periodo duro, c’era da solo da prendere colpi ed era giusto che lo facessi io: avevamo il vento contro, ma sono stati mesi fondamentali per allargarci e consentire a chi verrà dopo di risollevare la nostra storia». Alla fine arriva la staffilata a Renzi: «Vi assicuro che non farò un altro partito».

Ecumenico, quasi mistico quando alla fine dell’assemblea cita il passo del Vangelo sulle tre tende per Gesù, Elia e Mosè, la richiesta di Pietro di restare lassù in contemplazione e l’invito di Gesù a scendere nella valle, nel mondo. «Voglio terminare con questo invito: andiamo nella valle, parliamo con le persone, non stiamo lì fermi». «Oggi finisce l’inverno e inizia, in anticipo, la primavera del Pd», assicura il leader uscente, convinto che «il tentativo di sostituirci è fallito», noi «siamo insostituibili per costruire l’alternativa alla destra».

Ai quattro candidati a succedergli manda molti messaggi: «Parlate tra voi, e amate questo partito, bisogna vivere un senso di unità che viene prima di tutto». E un monito: «Un segretario non può passare tutta la giornata per gli equilibri interni e alla sera, con le energie residue, pensare a cosa dire agli italiani.

Per lui una standing ovation nel finale del discorso, iniziato con piglio professorale e slide per illustrare la «Bussola», la sua ultima fatica: un questionario compilato da 18mila militanti e realizzato dalla Ipsos per sondare gli umori della base dem. Un testo che è stato decisivo nella scrittura del nuovo manifesto dei valori.

E che rivela come lotta alle diseguaglianze e al cambiamento climatico, insieme alla difesa dei diritti dei lavoratori, siano in cima alla preferenze dei militanti Pd. Che vogliono una difesa di scuola e sanità pubbliche e lotta all’evasione fiscale e credono molto più nella comunità che nella forza trainante del leader di turno. E sono divisi a metà su come eleggere il leader: solo tra gli iscritti o con primarie aperte a tutti.

«Siamo una comunità, non un partito personale», scandisce Letta, insistendo sull’«orgoglio» di partito. E ai candidati dice : «Siete stati tutti convincenti, faccio fatica a scegliere chi votare fra voi». E ancora: «In questo mese cercate di appassionare gli italiani. Ricordate sempre David Sassoli, diamo attenzione e ascolto a tutti, col sorriso sulle labbra».

Non manca una nota autoironica: «Sono sicuro che vinceremo le prossime elezioni e che quelli che oggi ci prendono in giro torneranno a bussare alle nostre porte. Perché la vita è fatta così. Io ho vissuto tante fasi politiche. In alcune non ti bastano tre telefonini per rispondere a tutti, in altre hai un solo telefono e non ti chiama nessuno. Io ora entrerò in questa fase…».

Ma l’umore è molto diverso rispetto al 2014, quando Letta si sentì tradito e accoltellato dal suo partito, non solo da Renzi. E volò a Parigi pieno di rancore. Questa volta l’umore è di chi, chiamato due anni fa a salvare il Pd terremotato dalle dimissioni di Zingaretti, ha fatto il suo dovere per tenere insieme la baracca. E, dopo mesi in cui il rischio di implosione è stato molto forte, vede i dem incamminarsi verso un congresso tutto sommato gestibile. «Non ho lasciato la nave senza timone in mezzo alla tempesta», confida un Letta senza rancori, senza strali da lanciare anche a chi, in questi mesi, lo ha lasciato solo. Sollevato dall’essere arrivato in porto: «Ho fatto il mio dovere fino alla fine».