Se non fossero nascoste dal cantiere della Metro C, lungo via dei Fori Imperiali noteremmo quattro lastre di marmo fissate sul muro di contenimento della basilica di Massenzio. Raffigurano l’espansione – progressiva – dell’impero romano. L’ultima fotografa la cartografia politica del 117 d. C., quando con Traiano fu raggiunto il massimo sviluppo. Muñoz, ideatore nel 1934 dell’installazione, confidava nella capacità dell’inconscio di suscitare ammirazione per la civiltà romana.

Non tutti hanno letto così bene il sussidiario da ricordarsi che Traiano fosse nato in Spagna, come il successore Adriano: l’eroe delle Memorie, colui che fece adottare al suo erede il filosofo Marco Aurelio. Loro due sì uomini di cultura, mentre Traiano era un duro generale, conquistatore dell’Armenia, della Mesopotamia e dei Daci. Può dunque destare stupore quando, magari studiando alle superiori, si viene a conoscenza della sua volontà di essere celebrato dopo la morte tra due biblioteche, raccolto in un’urna alla base di una colonna narrante che riproduce nella forma il rotolo di un libro.

LA TOMBA DEL MILITARE si scopre così un’allegoria di cultura. Un tentativo di apologia per le violenze commesse? Oppure un subdolo manifesto politico?
Le fonti storiche sono scarse: Dione Cassio, Gellio, Sidonio Apollinare. Non sono evidenti neanche i resti materiali, tra i quali a fare da guida c’è Beatrice Pinna Caboni, responsabile dei Fori per conto della Sovrintendenza capitolina.
Mentre l’archeologa si schermisce – «chi ricostruisse con certezza la pianta delle biblioteche otterrebbe la cattedra di topografia antica all’università La Sapienza» – si può ricorrere alla fantasia per immaginare al nostro fianco un viaggiatore del 212 d. C. Viene da una provincia ma è ormai un cittadino romano e non più un suddito, perché Caracalla ha concesso la Constitutio Antoniniana. La peste antonina è finita da quarant’anni e Roma vuole tornare great again.

IL NEO-CITTADINO CERCA il complesso monumentale più grandioso della capitale e lo individua nel Foro di Traiano, lungo 300 metri e largo 185. Vi accede dal Foro di Augusto, tramite un imponente arco. È subito soggezione: sulle sue colonne laterali vede nicchie con statue di prigionieri Daci, sormontati da scudi con i volti dei generali di Traiano, che domina a cavallo il centro della piazza di fronte. Ai due lati dell’immenso spazio rettangolare si distendono portici colonnati. Su di essi Daci prigionieri, di nuovo. Sul fondo si staglia la Basilica Ulpia; al di là, finalmente, la Colonna.

Il viaggiatore, abituato dalla necessità a cogliere la simbologia del potere, legge l’iscrizione incisa sul basamento e nota il primo cedimento da parte dell’imperatore all’umiltà: l’altezza del monumento coincide con quella della collina tagliata per costruire il Foro, tanto che l’epigrafe gli sembra un’espiazione per quel sacrilegio commesso contro il paesaggio. Le ceneri di Traiano sono racchiuse in un’urna d’oro poggiata su un bancone marmoreo, oltre una porta che non può varcare.

NEL CORTILE DELLA COLONNA, l’una di fronte all’altra alla distanza di quaranta metri, si alzano le due biblioteche. Una contiene libri latini, l’altra greci. La sala meglio conservata si trova oggi a sud, verso il Campidoglio; dell’altra, al di sotto di via di Sant’Eufemia e dalla chiesa del Santissimo Nome di Maria, sopravvivono pochi resti, sufficienti tuttavia a rivelarne la specularità. È possibile visitare l’area, ma si riesce a entrare nella sala meridionale soltanto se accompagnati dalla responsabile dei Fori.
Il locale è, infatti, adibito a deposito archeologico e conserva colonne in pavonazzetto e fregi architettonici recuperati nel corso degli anni ’30. Il soffitto è formato da travi che sostengono la pavimentazione di via dei Fori Imperiali, all’altezza di un piccolo giardino che affaccia sulla Colonna. Ci muoviamo su marmi colorati tagliati in opus sectile finché, tornati all’esterno, l’archeologa mi segnala le tracce di un porticato.

PROPRIO QUI, davanti a due colonne, avrebbe sostato il viaggiatore antico prima di entrare in un ambiente di 27 metri per 20, circondato su tre lati da un bancone alto quasi un metro, accessibile da tre gradini interrotti da un prospetto colonnato che inquadra nicchie larghe 2 metri e alte 4, nelle quali sono sistemati diciotto armadi di legno con dentro i libri. Al centro del lato di fondo, un ampio vano ospita la statua di Minerva.

L’apertura per il pubblico è dall’alba a mezzogiorno, come ha stabilito il direttore: il procurator bibliothecarum divi Traiani. La presa dei volumi è affidata al personale; il prestito gli è precluso, perché il nostro viaggiatore non è un personaggio di rango e non può corrompere i bibliotecari, malacreanza tanto diffusa da meritarsi le critiche di Frontone. Ci sono diecimila rotoli. Cosa leggerà?
Si è informato. La biblioteca è famosa per ciò che fa il gioco degli amministratori, considerata la sua posizione nel Foro: ci sono scritti di retorica, raccolte di editti pretorili e biografie imperiali in libri lintei e elephantini, di lino e in custodia d’avorio. Poi, c’è di tutto. I volumi sono divisi per materia: grammatica, geometria, filosofia, musica, medicina. Per la letteratura, vige il modello greco della catalogazione per genere: epica, tragedia, lirica, elegia. Gli indices sono esposti su tavole (pinakes) accanto agli scaffali, che sono numerati. Negli armaria i rotoli sono identificati con nome dell’autore e titolo dell’opera da etichette pendenti (syllaboi), che bisogna cercare per settori (nidi) e ripiani (structiones).

IL LIBRO PIÙ IMPORTANTE, quello andato perduto che noi non potremo mai leggere, il viaggiatore sa benissimo quale sia: ha lo stesso impianto del De bello Gallico di Cesare e lo ha scritto l’imperatore in persona. Prima di consultarlo, però, gli si offre l’opportunità di un’anteprima impressa nel marmo. Cerca così una scalinata sul retro dell’edificio, sale al piano superiore e dalla finestra guarda verso la Colonna.
Sul suo fusto si snodano a spirale duecento metri di rilievo con la rappresentazione delle due guerre daciche, che tra il 101-102 e il 105-106 d. C. portarono alla riduzione in provincia dell’attuale territorio della Romania.

È LA TRASCRIZIONE figurativa del Commentarii di Traiano: dall’attraversamento del Danubio su un ponte di barche – in basso – alla deportazione finale degli sconfitti – in alto – si succedono lacrime e sangue, alternate dall’esaltazione del genio militare romano e da una sessantina di apparizioni dell’imperatore, che tuttavia non sa bucare lo schermo.
Risiede altrove il momento più catartico, la letteratura alta, il secondo cedimento del potere a un’umiltà che va oltre l’espiazione per diventare umana compassione. Lo sguardo del viaggiatore, cittadino a prezzo della libertà ceduta dalla sua provincia di origine, è infatti catturato dalla morte di Decebalo.

Folta barba e capelli corti, labbra decise, sguardo fisso. All’ombra di una foresta, con alti monti sullo sfondo, la moltitudine della cavalleria romana ha circondato il capo dei Daci ma non riesce a impedirgli la solitaria dignità del suicidio. È lecito supporre che nella biblioteca, voluta per rivestire di un senso razionale la violenza dell’impero, ci fosse anche l’Agricola di Tacito. Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant: «dove fanno il deserto, lo chiamano pace».