Quando nel 1768 Giambattista Bodoni arriva a Parma su invito del primo ministro del duca Ferdinando, Guillaume-Léon Du Tillot, il bibliotecario Paolo Maria Paciaudi è lì ad accoglierlo con soddisfazione perché è lui ad averlo segnalato. Dal 1761 lavora con solerte impegno e ricca erudizione a costruire una grande biblioteca reale che prenderà il nome di Palatina solo un secolo dopo, nel 1865.

L’incarico gli era stato affidato da Filippo I, padre di Ferdinando, dopo che la biblioteca dei Farnese ebbe la sorte di seguire a Napoli il precedente regnante, il madrileno Carlo di Borbone. Purtroppo, Paciaudi, appena tre anni dopo la sua nomina, è allontanato: quando sarà riammesso, avrà trascorso sei anni in un convento. Il motivo della rimozione del padre teatino era dovuto a un «foglio vergato» anonimo che l’accusava di «altissime querele sulla scelta de’ libri, sulla disposizion de’ medesimi, sui difetti del Catalogo, sulla scarsezza de’ Manoscritti».

TUTTAVIA LA BIBLIOTECA messa su dal dotto religioso non era il Gabinetto di un principe, ma il simbolo dell’azione riformatrice di un sovrano illuminato attento all’elevazione culturale del suo piccolo e conteso regno. Un progetto al quale si dedica, da bibliotecario privato di Filippo, anche il philosophe gesuita Alexandre Deleyre, amico di Diderot, Rousseau e d’Alembert. Anch’egli, nel decennio degli anni Sessanta, contribuisce con le sue idee al singolare progetto educativo gravitante intorno alla Reale Biblioteca, in una città che è seconda dopo Parigi nell’acquisto dei fascicoli dell’Encyclopédie.

La Biblioteca per l’epoca è all’avanguardia con un catalogo che non è più rilegato in volume, ma su schede mobili che oltre a riportare l’indicazione dell’autore, del titolo, le note tipografiche e bibliografiche, annota in quale ambito del sapere ogni libro si colloca.

A seguire le scorribande per mezz’Europa del Paciaudi a caccia d’intere collezioni librarie da acquistare, si assiste all’avventurosa storia della contesa delle monarchie per i libri. Una maniera di combattere sotto altre forme la guerra per il potere senza però l’uso di archibugi e di cannoni.

Sono dispute dove Filippo si misura con il pontefice Clemente XIII per avere la biblioteca del cardinale Domenico Passionei, perdendo senza appello per il divieto papale che i libri lasciassero Roma (oggi costituiscono il fondo principale della Biblioteca Angelica), oppure con l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo per quella del conte milanese Carlo Pertusani, vinta dall’imperatrice austriaca, che restò ad usum publicum a Milano (oggi alla Biblioteca Braidense).

Sconfitte che non impediscono che Parma competa nel secolo dei Lumi con le altre capitali europee in materia di tesori librari. Paciaudi, infatti, riesce a ordinare, tra le diverse acquisizioni, una rilevante raccolta di opere del Siglo de oro con centinaia di manoscritti e di volumi a stampa di Lope de Vega e di altri autori.

IL SUO MIGLIOR RISULTATO è avere proposto al duca Ferdinando, succeduto, come s’è detto all’inizio, nel 1765 al padre Filippo, di affidare a Bodoni la stamperia ducale, inserita anch’essa come la biblioteca nel Palazzo della Pilotta.

Paciaudi conosceva il saluzzese avendolo incontrato a Roma dove dal 1758, diciottenne, era a bottega nella tipografia della Congregazione di Propaganda Fide, ma impegnato anche come uditore di lingue orientali all’Università La Sapienza. Grande, infatti, è il suo interesse per gli «scritti esotici» e il loro alfabeto, che come ricorda Stephan Füssel nell’introduzione al suo Manuale Tipografico (Taschen, 2016), lo impegnano in un messale arabo-copto e nella ricostruzione di un alfabeto tibetano. «La mia Atene è Roma e la Propaganda – scrive Bodoni a ricordo del suo soggiorno giovanile – ivi appresi quell’arte dietro a cui da molti lustri mi adopero e mi affatico per innalzarla al possibile grado di perfezione e gloria dell’Italia e del nome italiano».

Carattere Bodoni

QUANDO BODONI giunge a Parma possiede un bagaglio di conoscenze dei modelli tipografici non solo europei, ma come scrisse Angelo Ciavarella, tra i più illustri bibliotecari della Palatina del secondo novecento, «di tutta la produzione tipografica delle più conosciute lingue del mondo».

All’interno di una saletta appartata al piano nobile della Pilotta, con cinque torchi e un modesto quantitativo di caratteri incisi da Pierre Simon Fournier, eleganti e proporzionati ma non appaganti il suo gusto, Bodoni inizia la sua avventura parmigiana chiamando in aiuto i suoi due fratelli, Giuseppe e Giandomenico, tipografi anch’essi come lo erano il padre e il nonno.

L’Officina bodoniana dopo «anonimi fogli volanti – come spiegò ancora Ciavarella – si mette in moto e dà il via al suo fervido lavoro» con la stampa della Descrizione delle feste celebrate in Parma (1769) tra il duca Ferdinando e l’arciduchessa Maria Amalia. Il matrimonio sancisce l’alleanza tra i Borbone e gli Asburgo, e spiega in quale posizione privilegiata si trovi Bodoni.

NELLO STESSO ANNO delle nozze è inaugurata ufficialmente la biblioteca alla presenza di Giuseppe II, imperatore d’Austria e cognato del duca. Disegnata in stile neoclassico da Ennemond Alexandre Petitot secondo le indicazioni dategli dal Paciaudi, non contiene ancora i volumi bodoniani, ma gli scaffali in noce che rivestono le pareti dell’antico «corridore» farnesiano, prima pinacoteca, sono pronti ad accoglierli con le loro decorazioni e festoni.

Intanto, tre anni dopo il suo arrivo, stampa il suo primo saggio tipografico (Fregi e majuscole incise e fuse, 1771) e non perde occasione con le raccolte di poesie da dare in omaggio a sovrani, nobili e ministri, di incidere matrici e disegnare caratteri, latini, greci, ebraici e cancellereschi, cioè corsivi. Ha scritto Robert Bringhurst che le centinaia di caratteri disegnati tra il 1765 e il 1813, anno della sua morte, abbracciano una grande varietà formale da porlo «nell’ambito della tipografia a quelle di Bayron e Liszt nei loro ambiti» (Gli elementi dello stile tipografico, 1992).

In perenne gara con gli altri tipografi neoclassici (Baskerville, Didot, Fermin), negli anni Novanta può sentirsi appagato dei risultati raggiunti. In catalogo le sue edizioni dei classici greci e romani, da Sofocle a Virgilio, da Dante a Tasso, sono accanto a autori moderni come Voltaire.

ESCONO TUTTE dalla sua stamperia privata che il duca gli ha autorizzato ad aprire, mentre i consigli sugli scrittori, glieli dà José Nicolas de Azara, ministro del re di Spagna a Roma, cultore dell’antichità e amico del Mengs e di Winckelmann, che invano tenta di riportarlo nella Città Eterna.

Da tipografo assurge anche lui a teorico dell’Idea del Bello, quello tipografico che per lui «non dee certamente confondersi con quelle del buono e dell’utile; elle sono tre diversi aspetti d’una cosa sola veduta da tre diversi lati», e nella stampa di un buon libro si misura nel «più speditamente leggere».

Le sue leggi sono tutte nel Manuale tipografico, completato e pubblicato dalla moglie Margherita dall’Aglio nel 1818, a cinque anni dalla sua morte. Bodoni è il principe dell’arte tipografica e Giuseppe Bossi da ammirato bibliofilo lo disegnerà incoronato da un genio alato sotto l’egida di Minerva, circondato dagli autori da lui pubblicati e nei confronti dei quali si considerò semplicemente un intermediario.