Bastano pochi minuti a piedi dal caos di Liverpool street per disfarsi dell’odore delle gözleme ripiene di formaggio e spinaci, liberarsi dalla patina d’unto che gli haddock impanati di Spitalfields lasciano sulle superfici di tablet e smartphone. Nell’East End londinese l’impermanenza è un valore assoluto. Si fa presto a dimenticare i giri armonici delle chitarre sui marciapiedi di Brick Lane – i graffiti di Shoreditch potrebbero evaporare da un momento all’altro, gli chador che svolazzano tra i banchi di pak choi e daikon a Whitechapel forse non sono mai esistiti.

Al Bishopsgate si arriva così, in preda a una vertigine di cui una volta varcata la soglia rimane la scia, la traccia evanescente di uno stordimento. Nei corridoi che conducono agli archivi, lungo le scale che portano al piano inferiore, il silenzio agisce come un invito – e non nel senso di raccomandazione, ma proprio di offerta di ospitalità, nella sua accezione più vasta di accoglienza. La biblioteca dell’istituto, un edificio vittoriano nato a fine ottocento con l’idea di abbattere le barriere di classe nell’accesso alla cultura, rappresenta un’eccezione in città: a chi decide di entrare non chiede in cambio niente. Non servono password, indirizzi, documenti d’identità, prove di residenza. Fermarsi a leggere è lecito a prescindere. E fa un certo effetto, se ci si trova al centro di un’area di fabbricati e magazzini ormai in disuso diventata habitat d’elezione per liberi professionisti del capitalismo digitale – un’oasi eccentrica popolata di creativi e barbieri di tendenza, boutique di vintage made in china e caffetterie dalle vetrine altamente instagrammabili.

DI FRONTE alla gentrificazione del presente la biblioteca di Bishopsgate funziona come una parentesi. Nella sala di lettura, la grande cupola che dal soffitto lascia passare la luce attraverso un mosaico di vetro spalanca lo spazio tra gli scaffali, i lunghi tavoli in legno antico e i lampadari pendenti. Può capitare di imbattersi in archivisti con la barba e il cappello concentrati a riordinare schede, ricercatrici dalle trecce argentate tutte intente a comporre puzzle di quaderni e foglietti, ragazzi dall’aria tanto geek quanto disorientata alle prese con la preparazione di un esame, o qualcuno che voleva soltanto sfogliare in pace un giornale di tanti anni fa. Dalle scritture private alle campagne politiche, gli archivi raccolgono opuscoli e fotografie, filmati e mappe della città che scompare – una collezione di documenti e volantini, illustrazioni e ritagli stampa sulla storia del lavoro e dei sindacati, del socialismo, della libertà di pensiero, dei movimenti femminista, Lgbt, antinucleare, anticoloniale, anarchico, per i diritti degli animali e contro l’obiezione di coscienza.

«C’È UN’INFINITÀ di storie incredibili in questi archivi, storie che in alcuni casi ci sorprendono, costringendoci a chiederci cosa sappiamo davvero degli eventi passati e delle persone che sono venute prima» dice Michelle Johansen, storica sociale, nello staff del Bishopsgate dal 2008. «Amo in particolare le collezioni delle attiviste meno conosciute, le cui battaglie per l’uguaglianza e la giustizia sono di straordinaria ispirazione, penso a Joyce Butler, Diane Munday, Muriel Lester. Ma la mia storia preferita è quella di Charles Goss, un bibliotecario autodidatta proveniente dalla working class che svolse un ruolo fondamentale nei primi anni di attività della biblioteca, dettando termini e politiche, perché negli anni aveva accumulato un bagaglio di conoscenze sulla gestione delle biblioteche pubbliche che mancava alla leadership più istruita dell’istituto.

LA SUA VICENDA ci ricorda che la conoscenza vale più del potere, che la competenza ha una sua propria moneta di scambio. Le biblioteche, come depositi di sapere, hanno tutto il potenziale per creare società più giuste». Che si tratti di un articolo firmato English collective of prostitutes o di una sceneggiatura di Sue Frumin, di un discorso di Amanda Sebestyen o del racconto di un trasportatore di merci sul Tamigi da venticinque generazioni, dei messaggi inviati su cassette a nastro tra gli anni ’60 e ’80 dalle famiglie emigrate nel Regno Unito dal Pakistan o delle foto scattate da Angela Christofilou dopo il disastro della Grenfell Tower, qui le storie sono di tutti. Ci sono ragazze di trent’anni nate a Archway da nonni bengalesi che raccontano come insegneranno ai figli a credere in dio, graphic designer cresciuti a Paddington in famiglie di ristoratori senza istruzione che riflettono sul senso di frequentare una scuola multiculturale, musulmani che «non si aspettavano di restare».

CANTANTI di nome Doris che si fanno strada tra gli oratori della domenica intonando My old man says follow the van and don’t dilly-dally on the way, senzatetto di nome Norman che dopo una vita a strillare dall’alto di un palchetto a Hyde Park sono partiti per girare il mondo in autobus e raccontarlo sul dorso di cartoline indirizzate sempre allo stesso amico. Commercianti di diamanti di nome Adam o Harry o Michael che ricordano com’è cambiata negli anni Hatton Garden, attiviste di nome Arifa o Emmeline che si battono per una riappropriazione femminista di strade materiali e simboliche. E poi, i diari – taccuini, vecchi quaderni con le copertine in tessuto o rivestite in pelle, libri scritti a mano da persone «ordinarie» per registrare la vita nei suoi accadimenti, misurarne l’impatto sulle emozioni, tenere a bada liste della spesa e cartografie di appuntamenti. Oltre 9mila esemplari «salvati dall’oblio» nella costellazione curata dalla filosofa Polly North e dall’assiriologo Irving Finkel.

NIENTE DI PIÙ irrilevante per il mercato della simultaneità – un patrimonio insostituibile secondo North, direttrice del progetto. «Le persone hanno sempre affidato alla pagina scritta i loro pensieri e le loro esperienze. Il risultato è una registrazione unica di quello che accade a un individuo nel corso di mesi, anni, attraverso i suoi occhi. Non esistono altri documenti capaci di offrire informazioni del genere sugli alti e i bassi dell’esistenza. Conservare i diari per lungo tempo significa lasciare un’indicazione preziosa di com’era la vita prima – spiega – A prescindere dal riferimento esplicito alla situazione politica, i diari registrano il tempo, il movimento degli uccelli, il prezzo del cibo, la regolarità del servizio postale e un’infinità di altre questioni ignorate dai libri di storia». È una vocazione, quella per le storie inedite o mai raccontate, che pervade il lavoro stesso degli archivisti, assume i contorni di un’attitudine.

Come nel caso di Barbara Vesey, figlia di uno scozzese, nata e cresciuta a New York, dove da bambina giocava a prestare libri dal bancone di una biblioteca immaginaria. «C’è una tradizione che ho inventato qui alla Bishopsgate, per i miei colleghi – racconta – ogni anno scatto e raccolgo foto che riguardano gli eventi significativi della biblioteca o delle nostre vite personali. Di solito ne seleziono ventiquattro, le stampo e le infilo in una grande calza di feltro. A partire dal primo giorno di dicembre ognuno ne prende una ogni mattina e la attacca all’albero. È il nostro calendario dell’avvento, un gioco che ogni volta non vediamo l’ora di fare e che illumina le giornate invernali più cupe. Un modo per lasciare traccia delle nostre vite lavorative ai colleghi che verranno dopo, noi filmiamo e conserviamo tutto».

È quello che ci si aspetterebbe da una capsula del tempo. Alla fine dei conti, come scriveva Nina Cassian, c’è modo e modo di sparire.

La cupola della biblioteca in frantumi

Il 24 aprile del 1993 la celebre cupola di vetro della biblioteca dell’Istituto culturale di Bishopsgate, che lascia filtrare la luce nella sala lettura, è andata in mille pezzi, deflagrata dopo un attentato dell’Ira. Si trattava dell’esplosione di un camion nel quartiere che causò la morte del fotografo Ed Henty e che ferì altre quarantaquattro persone. La cupola era già stata distrutta, anni prima, durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, e in seguito all’attentato è stata ricostruita per la seconda volta.