«I libri si offrono a chiunque voglia leggerli, senza distinzione. E se redimono, lo fanno in una maniera tanto caotica e insondabile da non lasciare adito a speranze. Forse i libri scrivono le cose giuste per vie traverse. Come Dio. Io sono una via traversa». Il protagonista del racconto La biblioteca, di Dulce Maria Cardoso (nella raccolta Sono tutte storie d’amore, Voland), sembra persuaso dal grande potere dei libri e della lettura, essere una via traversa per lui ha significato salvarsi la vita, più precisamente è stato lo stratagemma per far perdere forza all’idea di suicidio, certo non alla morte altrui. Nemmeno alla cattiveria. Aver costruito la propria biblioteca lo ha però fatto arrivare all’impensato, ripercorrere la propria parabola e altresì riconoscerne una certa cristallina nefandezza.

Se allora non salvano dalla miseria umana, nello stesso modo accade che i libri siano forieri di rivoli così implicati a quelli di chi le legge che il dialogo talvolta prende consistenza, si sporge dal puro esercizio ermeneutico per divenire altro, conversazione di desiderio e dunque politica. Le storie delle biblioteche, come quelle degli esseri umani, seguono deviazioni e strade secondarie. Lo intuiva bene Ray Bradbury che giovanissimo e con pochissimi mezzi le frequentava fino a quando, attratto dal rumore che proveniva dal sottoscala della Powell Library di Los Angeles, si procura una manciata di centesimi e affitta una macchina da scrivere dando vita a Fahnrenheit 451 (Mondadori).

ANCHE GUY MONTAG, protagonista del romanzo del 1953, più che un apprendistato morale per redimere sé stesso dall’ordine di bruciare libri, intraprende un viaggio senza infingimenti dentro la propria vicenda personale. Sia per lui che per il quasi redento protagonista di Cardoso l’interrogativo bradburiano di Clarisse è consonante: sei felice? Cosa indica quella domanda quando si conficca nel periplo di latitudini storiche e geografiche opposte, se non che le stanze dei libri sono luoghi di passione singolare e collettiva? E che scegliere di superare la soglia della pagina significhi superare quella intima di una memoria vivente?
C’è una tangenza tra il possesso della storia personale e quello della propria biblioteca, due dei tanti punti che ricorrono nella letteratura sono rappresentati dalla anziana donna che le milizie del fuoco di Fahrenheit 451 bruciano insieme ai suoi libri e il riso forte di Kien che in Auto da fé di Elias Canetti (Adelphi) viene avvolto dalle fiamme con i propri volumi.

Trovare il senso tattile dello stupore di una biblioteca risiede però nelle mani di Antonia S. Byatt nella lettera ritrovata che apre Possessione (Einaudi) o ancora nel pianto a dirotto di Jeanette Winterson che, sedicenne, elegge la biblioteca pubblica di Accrington come personale «porta per l’altrove» nel suo Perché essere felice quando puoi essere normale? (Mondadori). In ogni caso, si tratta di un varco che conduce a un esilio in cui si ricontatta un sé profondo, diventano amici cari e fidati, i libri e chi li ha scritti, anche là dove si aggirano nella selva diseredata e dissidente resa viva nella pellicola che nel 1966 François Truffaut dedica al capolavoro di Bradbury e in cui si scopre l’esperienza sorgiva della lettura, quella in cui la traiettoria dello sguardo diviene un chiaro del bosco, radura spirituale in cui mettere al lavoro la propria intenzione.

PER SFUGGIRE all’odio della Storia o si è travolti dal mondo oppure ci si prepara a ribaltarlo di segno, con la sola resistenza che si ha: quella del proprio corpo che si fa esperienza. Ecco perché divenire-libri è lo sconcerto di una trama che scompagina non solo gli occhi ma l’intera propria comparsa. In questa direzione, è un esercizio dello stare in presenza quello inventato in Danimarca e che prende il nome di Human Library, fondata nella primavera del 2000 a Copenaghen da Ronni e Dany Abergel insieme ad Asma Mouna e Christoffer Erichsen. Niente pagine scritte però, nessuna paura che le storie già tramandate vadano perdute, l’immaginazione danese non si ferma al patrimonio già esistente ma si sposta alla irriducibilità delle storie private. Nessuno ha imparato a memoria Gita al faro di Virginia Woolf o Moby Dick di Herman Melville, nessuno è entrato in crisi come Montag e ha deciso di abbracciare l’Ecclesiaste.

A poter essere presi in prestito sono libri-viventi, persone che condividono la propria vita e la raccontano a quanti desiderino sentirla. Diventare-libro ha così indicato la strada per interrogare diseguaglianze e scardinare pregiudizi tramite il racconto della propria storia personale; avere accesso alle «biblioteche umane» significa che la lettura si trasforma in ascolto e che invece di una storia di cellulosa se ne può richiedere una in carne e ossa, non ci sono categorie di collocazione perché ogni essere umano è un evento singolare e irripetibile nel proprio nome, punto di fuga che apre alla relazione. Si tratta di esperienze complesse, vie traverse che non hanno salvato nessuno ma che appartengono a chi ha deciso liberamente di renderle un bene disponibili. I libri sono volti, senza copertine né editing: disoccupati, convertiti, bipolari, autistici, vittime di violenza sessuale, alcolisti, tossicomani e altri.

E sono ormai migliaia i volontari sparsi in più di 80 paesi che si sono presi in carico l’idea iniziale organizzandola in una piattaforma globale che ora possiede un catalogo mobile e aperto con centinaia di iniziative locali, talvolta con delle distinzioni di contesto. Sono entrati nelle scuole e nelle università, negli ospedali, nei centri sociali, nelle carceri e nelle aziende, sono rimasti a presidiare. Anche in Italia, dalla Toscana alle Marche, dalla Lombardia al Trentino, vi sono numerosi esempi di «biblioteche viventi» che seguono il metodo consolidato nel resto del mondo: si fa una tessera associativa, si chiede un libro-vivente in prestito e lo si può tenere con sé non oltre i 30 minuti; si può interagire facendo delle domande ma non essere maltrattanti o poco rispettosi, e mentre un libro tradizionalmente inteso non può lamentarsi, quello umano invece sì e può abbandonare l’incontro.

I TEMI sono tra i più disparati, come per esempio quello che al mercato comunale coperto in Darsena a Milano ha visto la nascita di una biblioteca vivente di sole donne contro la violenza maschile. Simile è anche ciò che è stato realizzato dalla associazione «Donne di carta», operante da dieci anni e che dal 2009 ha aderito al «Proyecto Fahrenheit 451- Las personas libro» fondato da Antonio Rodríguez Menéndez. Imparare pagine di romanzi a memoria e formare nuove reti è già presente attraverso diverse «cellule»: da Roma a Cagliari, Bari, Ostuni, Napoli, Pistoia, Macerata e altre.

Questo saltare fuori dal bosco bradburiano e decidere di incarnare una storia orale privata, di rigenerare biblioteche e trasmetterne memoria attraverso l’eccedenza del proprio corpo vivo, ci avverte quanto siano politiche e potenti le scelte di sperimentare gli spazi fuori dagli scaffali per farsi breccia di parola in presenza. Anzitutto allargando la lettura a tutti gli altri sensi, primo fra tutti l’ascolto di una voce e una postura che intanto preveda la sospensione del giudizio. E la creazione di uno spazio inedito, le vie traverse e imperfette di libri e volti che si rendono prossimi e chiedono di essere aperti alla relazione.

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(La nostra iniziativa estiva si conclude oggi)