L’eredità minata di Trump è a Kabul
Guerra La nuova Casa bianca alle prese con l'incognita Afghanistan. Possibile un rinvio di sei mesi del ritiro americano per rafforzare il governo a scapito dei Talebani, veri pivot del dialogo interno: il predecessore ha concesso tutto, non ci sono più leve di pressione
Guerra La nuova Casa bianca alle prese con l'incognita Afghanistan. Possibile un rinvio di sei mesi del ritiro americano per rafforzare il governo a scapito dei Talebani, veri pivot del dialogo interno: il predecessore ha concesso tutto, non ci sono più leve di pressione
Poche opzioni, grandi incognite e un’unica certezza: qualunque decisione assumerà, sarà tutt’altro che un successo. È ciò che eredita il presidente Joe Biden in Afghanistan. Vent’anni di una guerra che causa più di 3mila vittime civili ogni anno, un accordo-capestro con i Talebani, il faticoso avvio del negoziato “intra-afghano” e 2.500 soldati a stelle e strisce sul terreno.
Un dossier difficile da gestire, ma urgente. Entro la fine di aprile, infatti, il ritiro dei soldati statunitensi dovrà essere completo. Così recita l’accordo bilaterale favorito dall’inviato di Donald Trump, Zalmay Khalilzad, e siglato a Doha il 29 febbraio tra gli Usa e i Talebani.
Gli americani hanno promesso il ritiro, i Talebani il no al terrorismo, la rottura con al Qaeda, un dialogo diplomatico con i politici afghani che conduca al silenzio delle armi. Forse alla pace. Per ora, i Talebani non hanno rispettato gli impegni – se non la tregua con gli americani –, Washington invece ha fatto la sua parte. E Biden deve decidere al più presto: cosa farne di quei 2.500 soldati? E dell’accordo di Doha?
Il nuovo segretario di Stato Usa, Anthony Blinken, ha già dichiarato che l’accordo verrà analizzato e rivisto. Non tutti i passaggi sono chiari, sostiene Blinken alludendo a quegli «annessi secretati» di cui pochi conoscono il contenuto. Ma è improbabile che Biden rovesci il tavolo del gioco. Potrebbe provare a sondare la reazione dei Talebani su una sua vecchia idea: mantenere una presenza «leggera» per le operazioni di controterrorismo.
Sa però che i Talebani non saranno d’accordo. E parte da un’altra consapevolezza: Trump ha dissipato quasi interamente il capitale diplomatico e le leve di pressione sui Talebani. Biden ha le mani legate e margini di manovra ridotti. Lo ha ammesso lui stesso, lo scorso settembre in un’intervista a Stars and Stripes, dichiarando che Trump ha «rafforzato i nostri avversari e sperperato la nostra leva» di pressione. È il prezzo che Trump ha voluto pagare per condurre i Talebani al tavolo negoziale.
L’ACCORDO DI DOHA E IL PROCESSO DI PACE. L’amministrazione Trump ha ceduto alla richiesta dei Talebani di puntare a un accordo bilaterale, escludendo il governo di Kabul. I Talebani hanno ottenuto l’impegno sul ritiro, una patente di legittimità politica internazionale e un enorme serbatoio per alimentare la macchina della propaganda: «Gli americani se ne vanno, il nostro sacro jihad è vittorioso».
Hanno sì accettato di sedersi poi al tavolo negoziale con i politici afghani, ma il «fronte repubblicano» con cui negoziano dal 12 settembre, sempre a Doha, non rappresenta il governo di Kabul, ma un ampio spettro di politici, inclusi quelli dell’opposizione al presidente Ashraf Ghani e inclusi i figli di alcuni di quei leader jihadi che hanno insanguinato e ridotto in macerie il Paese durante la guerra civile degli anni Novanta. I Talebani siedono al tavolo negoziale da una posizione di forza: guadagnata sul terreno militare, certificata con un bel bollino blu dalla Casa bianca.
Il nuovo inquilino dello Studio ovale si trova nei guai: dovrà riequilibrare il rapporto tra i Talebani, forti della legittimità e delle concessioni fatte loro da Trump, e il governo afghano, marginalizzato e costretto ad accettare decisioni assunte da Washington, come il rilascio di 5mila detenuti talebani; e dovrà esercitare pressioni sui Talebani senza aver strumenti per farlo, se non quel calendario del ritiro su cui è bene non tirare troppo la corda.
Come anticipato nei giorni scorsi dal portavoce del Consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan, Washington chiederà ai Talebani atti concreti su tre fronti: rottura con al Qaeda, riduzione della violenza e impegno nel negoziato intra-afghano.
A corto di strumenti di persuasione efficaci, Biden potrebbe ricorrere agli incentivi: altri detenuti liberati e l’accelerazione sulla già programmata rimozione dei barbuti dalle liste nere dell’Onu. Per farlo, ha bisogno di tempo. Per questo circola con sempre maggiore insistenza un’ipotesi, azzardata ma forse praticabile: convincere i Talebani ad accettare un posticipo di sei mesi del ritiro completo.
Proprio quei mesi di ritardo con cui è partito il dialogo intra-afghano rispetto alle previsioni (il 12 settembre anziché il 10 marzo 2020). Sei mesi che servirebbero per aiutare il governo di Kabul a uscire dall’angolo in cui l’ha ficcato Trump e consolidare il consenso regionale per la fase successiva al disimpegno Usa.
IL QUADRO REGIONALE. Il fronte regionale rimane cruciale. Biden proverà a rafforzare il lavoro di tessitura dell’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad, appena riconfermato: «Gli abbiamo chiesto di continuare il lavoro vitale fatto fin qui», ha annunciato mercoledì il segretario di Stato Usa. Non sarà un lavoro facile. Perché Khalilzad devo recuperare alcuni rapporti, lacerati dall’imprevedibile Trump, allergico alla diplomazia, e perché gli attori regionali sono sia la soluzione che il problema al conflitto.
Possono contribuire alla stabilità, ma se il piano di disimpegno americano dovesse andare storto sono pronti a sostenere ciascuno un diverso attore afghano, a scapito della tenuta delle istituzioni, già fragili e corrotte. L’inviato di Trump e i Talebani procedono paralleli. Anche gli studenti coranici fanno la spola tra le capitali regionali. Soltanto questa settimana sono stati a Tehran e a Mosca. A Teheran mullah Baradar – tra i fondatori del movimento – e i suoi uomini hanno incontrato il generale Ali Shamkhani, segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale.
A Mosca la delegazione guidata da Sher Mohammad Abbas Stanikzai è stata accolta nella sede del ministero degli Esteri dalla vecchia volpe della strategia russa nell’area, il rappresentante speciale di Putin, Zamir Kabulov. Gli incontri diplomatici regionali di alto livello corrispondo a messaggi per l’amministrazione Biden: «Trump ci ha dato la patente politica. Noi la usiamo. Rispettate l’accordo di Doha e non fate scherzi».
VIOLENZA. I Talebani possono permettersi di alzare la posta e giocare d’azzardo. La rotta americana è tracciata: presto o tardi gli invasori toglieranno le tende. Sul fronte interno, molti attribuiscono ai seguaci di mullah Haibatullah Akhudnzada la responsabilità di una sequenza drammatica di omicidi mirati che sta falcidiando esponenti della politica locale, della società civile, dei media. Ma le responsabilità potrebbero essere più corali di quanto non appaia. È certo però che i Talebani non vogliono rinunciare alla violenza.
Potrebbero farlo – nota il ricercatore Antonio Giustozzi in un saggio per un dossier Ispi curato da chi scrive e da Giulia Sciorati – soltanto se venisse soddisfatta un’altra richiesta: un governo a interim. Per ora il presidente Ghani ha resistito alle pressioni di farsi da parte e la revisione dell’accordo di Doha da parte dell’amministrazione Biden gli concede un po’ di respiro. Ma sarà presto messo alle strette. Mentre i civili non vedono alcun beneficio dal processo di pace: secondo un rapporto dell’Aghanistan Independent Human Rights Commission reso pubblico due giorni fa, nel 2020 il conflitto avrebbe causato 2.958 vittime e 5.542 civili.
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