Con il Carteggio Giacomo Leopardi – Carlo Pepoli (1826-1832), curato da Andrea Campana, docente all’Università di Bologna, e dal veterano Pantaleo Palmieri, prende avvio per i tipi di Leo S. Olschki (pp. VI-166, € 35,00) un’operazione destinata a segnare un accrescimento fondamentale nella spessa bibliografia sul poeta e pensatore recanatese. Sotto la direzione dello stesso Campana, con la collaborazione di un’équipe di studiosi ben addentro a ricerche leopardiane, il programma si prefigge di proporre in venti volumi le corrispondenze di maggior consistenza e valore , tenendo in equilibrio l’«attenzione – si legge nel manifesto di lancio – a ogni scambio epistolare, sia per quanto riguarda il testo, i suoi contenuti, le sue peculiarità e implicazioni, sia per quanto concerne il profilo dei corrispondenti, in un ideale bilanciamento tra lo studio dei documenti e gli approfondimenti di natura storica».

Il patrocinio è assicurato dal Centro Nazionale Studi Leopardiani e comprova il risveglio di una radicata tradizione editoriale, che ora si avvale, tra altre sedi scientifiche, dell’Università di Macerata e del fervore di Laura Melosi, che, quasi in parallelo, ha iniziato a far uscire una collana di studi e testi, «Leopardiana», tesi ad ampliare la perlustrazione di temi e legami fino ad oggi o ignorati o insufficientemente esplorati. Si tratta di collocare sempre più puntualmente Leopardi in una rete di ambienti e di legami che dilateranno non poco la conoscenza depositata sul nostro Ottocento, più complesso e variegato di quanto appaia.

Il primo affondo va sfogliato – gustato – come un modello di impostazione, cogliendo novità e suggestioni degli esperti curatori. Qualcuno potrà obiettare che per l’epistolario leopardiano erano già disponibili dal 1998 i due volumi approntati da Franco Brioschi e Patrizia Landi, compresivi di 1969 pezzi, quasi la totalità delle carte sopravvissute: culmine di un lavorìo ideato poco dopo la morte da Pietro Giordani (1774-1848) cui si affiancarono entusiasti Pietro Pellegrini e l’instancabile reggiano Prospero Viani (1819-1992).

La prima edizione di un Epistolario sortì a cura di Viani e Piero Colletta (1775-1831) in due volumi da Le Monnier a Firenze nel 1849 e costituì un nucleo via via ingrossatosi con gli apporti decisivi di Francesco Moroncini (1934-1941). Christian Genetelli ha ricostruito con ineccepibile accanimento le vicende di un insieme di lettere aperto a innesti e (limitate) estensioni in una Storia dell’epistolario leopardiano (Led Edizioni, 2016) e in un capitolo delle sue Incursioni leopardiane (Antenore, 2003) che hanno una funzione preliminare a fronte dell’ulteriore cantiere che si è aperto.

Non è il caso in questi appunti di inoltrarsi in un labirinto che fonde o accosta storiografia e filologia, minuta erudizione e sapiente ecdotica, ritratti biografici e confronti intellettuali. Gli incrementi registrati non sempre sono andati di pari passo con gli aggiornamenti metodologici in tema di filologia, e non son mancati nella trasmissione dei documenti, guasti, talvolta minimi, talaltra di qualche peso, che hanno spinto a mettere in piedi revisioni e controlli diretti. Se l’unico testimone è un apografo, una carta cioè copiata da chi l’ha ricevuta o ne è venuto in possesso, sarà opportuno sottoporla a un esame supplementare o imboccare piste per rintracciare l’autografo se non l’originale, e non è detto che la caccia abbia buon esito. Talune datazioni sono dedotte per via di plausibili ipotesi. Un apografo dei familiari e uno trasmesso da un editore o da un diplomatico non hanno il medesimo statuto.

Sono 260 le missive di Leopardi messe a punto da Genetelli, una trentina quelle di corrispondenti. La sequenza di lettere del poeta si presta a esser letta come il continuum di un romanzo diaristico. L’epistolario è un bosco dai cento sentieri e dai mille intralci. Implica scelte e mutamenti di fuoco. I carteggi hanno una pregnanza da considerare perché sono dialoghi tra attori, brani di teatro involontario e sono mossi da tonalità diverse, che chiedono di non esser prese alla lettera, ma esigono di esser commisurate alla temperatura di situazioni affettive e di strategie ellittiche o di contingenti mire diplomatiche.

Il carteggio tra Giacomo e l’amico bolognese Carlo Pepoli (1796-1881), quasi coetaneo, anche lui di famiglia aristocratica, poeta ambizioso e attivissimo patriota, uno dei leader dei moti del 1831, consta di 22 lettere, 9 di Leopardi (ma una è un sobrio e nervoso bigliettino) e 13 del prestante sodale, individuato da Stendhal come «le fat le plus célèbre de Bologne», «il più famoso bellimbusto di Bologna».

Pepoli ha spiegato l’esiguità delle lettere di Leopardi con perdite aggravate dagli spostamenti necessitati dall’esilio. Gioele Marozzi con ammirevole applicazione si è sobbarcato il lavoro certosino di verificare direttamente sugli autografi o apografi o idiografi non presenti nella Biblioteca Nazionale di Napoli, i testi delle lettere in un volume che si presenta come un’aggiornata introduzione al carteggio, in grado di coprire quanto non era stato fatto sistematicamente neppure nell’edizione Brioschi-Landi. Risultano introvabili per uno scrutinio de visu 340 lettere di cui 180 di Giacomo. Il reportage di Marozzi da mezzo mondo è compilato con estrema cura e con una competenza non scevra da genuino amore: Percorsi nell’Epistolario di Giacomo Leopardi (eum, Edizioni Università di Macerata, pp. 378, € 13,00). Si pensi che sono 89 le sedi in cui è disperso il patrimonio da consultare.

Accomunati da affinità ideali e dalla sintonia con il classicismo liberale emiliano-romagnolo, i due avevano temperamenti che più distanti non si potrebbero immaginare: tanto Pepoli era estroverso e voglioso di visibilità quanto riservato e «renitente alla politica» era Giacomo, il che non impedì loro, in una prima fase, di frequentare i salotti à la page e intessere medesime amicizie. Leopardi fece tappa a Bologna la prima volta che vi transitò sulla via per Milano, dove doveva incontrare l’editore Antonio Fortunato Stella, nel luglio 1825, ma vi sostò a più riprese.

In tutto trascorse nella città non meno di sedici mesi ed ebbe una ragguardevole ed eccitante quantità di contatti. Il provvidenziale primo incontro all’ombra delle due torri fu con il protettore per eccellenza Pietro Giordani e con l’intrigante avvocato Pietro Brighenti (1755-1859), prezioso ma «sciagurato faccendiere» (Dionisotti). Vien da domandarsi perché il rapporto con la città descritta d’acchito al padre «quietissima, allegrissima, ospitalissima» (22 luglio 1825), non abbia avuto nel racconto divulgato su Leopardi il rilievo del periodo tedioso romano o delle intense giornate fiorentine.

Il fatto è che l’esperienza romana coincide con il crollo del sistema filosofeggiante che stava costruendo, mentre a Firenze il conflitto con i letterati cruscanti e il contratto invaghimento per Fanny Targioni Tozzetti, nonché la fatale conoscenza del gagliardo esule napoletano Antonio Ranieri (1806-1888), si tradussero in drammi psicologici o sentimentali. A Bologna esplode l’ansia di pubblicare e farsi apprezzare. Forzando un po’, l’andirivieni con Milano e la ricerca fortunata di un editore per le canzoni e le prime poesie poi confluite nei Canti (1831) configurano quasi un principiante manager, immerso nei meccanismi dell’incipiente industria culturale. Questo carteggio può essere usato come un filo rosso pieno di indizi che consentono di documentare addirittura un «tournant», una svolta cruciale, secondo Luigi Blasucci, della biografia intellettuale di Leopardi.

L’attacco è un laconico messaggio bibliografico del 14 febbraio 1826 di Pepoli, che abbrevia l’apertura con uno svelto C.A. (Caro Amico). Quando si rivolge a Carlo il tono di Giacomo è più che confidenziale: «La mia signora è maritata, benché non abbia qui il marito, per la ragion sufficiente che il marito sta a Modena: è distinta per un paio d’occhi che a me paion belli, e per una persona che a me e ad alcuni altri è paruta bella» (15 aprile 1826). Il 21 maggio1827 al prestigioso veneziano Antonio Papadopoli (1802-1844): «Come mai ti può capire in mente – scrive con brutale franchezza – che io continui d’andare da quella puttana della Malvezzi? Voglio che mi caschi il naso, se da che ho saputo le ciarle che ha fatto di me, ci sono tornato, o sono per tornarci mai…». L’offensivo strale scagliato verso la corteggiatissima Malvezzi (1785-1859) è la reazione di un innamorato tradito dal franare di un’«illusione meravigliosa».

La giornata memorabile che sancì un distacco irreversibile da Pepoli, anche se non cancellò un’amicale devozione, fu il 27 marzo 1826 allorché Giacomo recitò impacciato all’Accademia dei Felsinei la sermoneggiante epistola oraziana Al Conte Carlo Pepoli. Il motivo portante del dotto componimento era l’opposizione tra chi combatteva l’otium con «brama insanabile» consumando «la destinata sua vita» alla ricerca di un’impossibile felicità e chi riusciva ad accettare l’aristocratico privilegio dedicandosi a dolci cure, a un poetico entusiasmo, assimilabile alla scelta dell’omaggiato amico.

La tirata in prosastici e oscuri versi s’impennava quindi in un pariniano atto d’accusa polemico con il ceto al potere. Leopardi optava per una terza via: nobilitare la noia inevitabile riflettendo sulla materiale condizione umana: «In questo specolar gli ozi traendo / verrò: che conosciuto, ancor che tristo / ha suoi diletti il vero…». Non c’è già il nucleo della postura etica della Ginestra? Non un’eco dello stoico Epitteto, tradotto proprio a Bologna? Non l’esaltazione di una combattiva fraternità universale?
A Bologna il giovane borghigiano si scontrò con gli ostacoli quotidianamente inaggirabili: si fece mondano ed eremitico, solitario e socievole, dette forma alla sua vita. Il carteggio declina gradualmente fino a uno st

izzito silenzio.

Carlo Pepoli s’infuria per non essere stato infornato di «soscrizioni per la Stampa di certi Canti di G. Leopardi, ed io lo devo sapere da altri…» (28 luglio 1830). Leopardi da Firenze tenta di rabbonirlo incitandolo a reclutare «soscrittori a questo Manifesto» (6 agosto 1830). L’ultima lettera che ci è giunta proviene da Ginevra (30 novembre 1832), unica dall’esilio: è la raccomandazione di un letterato francese che l’ardente Carlo prega Giacomo di presentare a Giovan Battista Niccolini (1782-1861) e non ha ritegno a inserire tra le righe il desiderio di un chiarimento circa le «tra loro svariate voci» che circolavano su sue opere. Erano le incredule diatribe insorte sull’attribuzione al geniale figlio degli infami Dialoghetti del protervo Monaldo? Come poteva dar credito a simili malevolenze pure lui, che aveva conosciuto Giacomo durante lunghi soggiorni fitti di animosi conversari e di rinfrancanti consuetudini?