Politica

Le «zecche rosse»: «L’inverno trumpiano sta arrivando»

Il centro sociale Labas a BolognaIl centro sociale Labas a Bologna

Emilia paranoica I centri sociali avvertono: l'attacco delle destre non riguarda soltanto noi. La lunga storia di spazi tutt’altro che marginali: «Contro i fascisti sabato scorso c’era tutta la città»

Pubblicato un giorno faEdizione del 12 novembre 2024

Chissà se Matteo Salvini e Ignazio La Russa sanno che a Bologna il primo a regolarizzare un centro sociale autogestito fu Giorgio Guazzaloca. Con il pragmatismo del commerciante, il primo (e al momento unico) sindaco di centrodestra della città nella storia repubblicana riconobbe il valore del Teatro polivalente occupato.

Si era nell’agosto 2000. Mentre i centri sociali prendevano la rincorsa verso i movimenti globali che sarebbero confluiti al G8 di Genova venne sgomberato l’ex teatro di scenografia dell’Accademia. Posto mai utilizzato e occupato da un lustro. Guazzaloca capì che le proteste avrebbero potuto creargli parecchi grattacapi e consegnò agli occupanti le chiavi di un grande spazio situato (a volte la toponomastica riserva belle sorprese) in via Lenin. Ci arrivò un corteo di fine estate partecipatissimo, gioioso e rumoroso. Seguirono le convenzioni con altri due spazi, il Vag 61 e il Cassero. «Il Guazza un giorno mi sfidò a braccio di ferro – ha raccontato Valerio Monteventi, fisico da rugbista, memoria dei movimenti cittadini e all’epoca consigliere indipendente eletto nel Prc – Da ex macellaio era convinto di avere un avambraccio più potente di un tronchese. Ma non vi dico come andò a finire…». Le vere incomprensioni, è il paradosso, arrivarono con la giunta di Sergio Cofferati, accolto come il liberatore dopo la parentesi della destra sotto le due torri: si fece notoriamente prendere la mano dalle politiche securitarie.

Oggi il Tpo ha sede dalle parti della stazione centrale. Dalla sua storia è germinato Labàs e da qui si sono diramate esperienze di mutualismo e sperimentazione culturale. Quelli del Tpo, peraltro, hanno lavorato nella Coalizione civica, che dentro la giunta di Matteo Lepore esprime la vicesindaca Emily Clancy e il consigliere comunale Detjon Begaj. Insomma, se uno pensa ai centri sociali, e all’ondata che ha portato i movimenti fuori dalle secche degli anni Ottanta, rievoca il Leoncavallo, che l’anno prossimo compie cinquant’anni e il cui sgombero e rioccupazione nell’estate del 1989 rappresentò l’evento fondativo del decennio successivo.

Ma Bologna ha avuto un ruolo importante. Erano gli anni in cui Le Monde diceva che i Csoa esprimevano «il fiore all’occhiello della cultura italiana». Posti come il Pellerossa, l’Isola nel kantiere e il Livello 57 aprirono strade e costruirono immaginari che durano ancora, non senza contraddizioni e conflitti. Tra i più rilevanti: lo sgombero dello storico XM24 sull’asse della Bolognina.

La gentrification descritta anche dal New York Times spiana tutto: è l’eterno ritorno della Laida Bologna cantata in tempi non sospetti dalle glorie punk locali Nabat. Anche quelli del Crash, che le cronache più schematiche descriverebbero come espressione dell’antagonismo, dopo anni di battaglie hanno strappato una convenzione e gestiscono gli spazi dell’ex Centrale del latte di via Corticella. «Salvini e Meloni non riescono ad accettare che sabato in piazza c’era una dimensione di massa, c’era la composizione sociale della città», dice Anna del Laboratorio Crash.

Ma è qui che Salvini e il governo decidono di sferrare il colpo, di sponda con i gruppuscoli neofascisti: le «zecche rosse» vengono dipinte come marginali e residuali ma sono un pezzo della sfera pubblica.

Tpo e Labàs si definiscono «municipi sociali», spazi di movimento e autogoverno. Rivendicano il senso generale degli eventi di sabato. «Le persone che erano in prima fila vanno difese perché lo scontro che hanno messo in campo è stato tutto politico – affermano – In Montagnola non c’è stato il caos e la guerriglia bensì una risposta misurata e determinata di migliaia di persone al sopruso che stavano subendo».

«L’attacco delle destre è alla città – riflette Meco Mucignat del Tpo – A una città che con tutti i limiti e le contraddizioni ha spazi sociali che intervengono nelle dinamiche politiche. E che mantiene il punto su temi come l’antifascismo o i diritti civili. Il governo punta a rompere gli spazi comuni. Così, sabato prossimo saremo a Roma, per la grande assemblea nazionale contro il Ddl sicurezza. Anche lì si sta ricostruendo un fronte ampio, una convergenza che qualche anno fa avremmo definito ‘tra democratici e ribelli’». E poi lo sciopero generale del 29 novembre. Perché, proseguono i municipi sociali, occorre allargare lo sguardo: «Bologna da sola non basta. Non può bastare, perché lo scontro in atto è solo una punta dell’inverno appena iniziato con l’elezione di Trump negli Stati uniti».

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