Josef Chapek, «Paesaggio con croce e colombi»
Josef Chapek, «Paesaggio con croce e colombi», 1937
Alias Domenica

Leo Perutz, ufficiale di Carlo V combatte l’amnesia

Novecento austriaco Tra la Germania delle guerre di religione e il Messico dove Cortés stermina, in nome degli Asburgo, la civiltà azteca: «La terza pallottola», esordio datato 1915 di Leo Perutz, ora edito da Adelphi
Pubblicato circa un mese faEdizione del 8 settembre 2024

Siamo nel 1915. La guerra mondiale imperversa da alcuni mesi. Ma a noi qui interessano due romanzi usciti quasi in contemporanea in Germania. A unirli è il legame dei due autori con Praga.

Il primo è Il Golem di Gustav Meyrink, un viennese di nascita che a Praga era giunto quindicenne rimanendoci per vent’anni fino al 1904. L’altro è La terza pallottola di Leo Perutz (traduzione di Margherita Belardetti, Adelphi, pp. 286, € 19,00) un esordiente trentatreenne, matematico nel ramo assicurativo, che invece a Praga era nato, in una famiglia ebraica, ma aveva lasciato la città a soli diciassette anni. Entrambi vivevano ormai a Vienna.

L’incontro casuale dei due scrittori smonta un assunto che da decenni pesa sulla figura di Perutz: la sua vicinanza al mondo degli scrittori di Praga: Kafka, Brod, Paul Leppin … E non solo perché il suo romanzo d’esordio si muove tra la Germania delle guerre di religione e il Messico dove Cortés sta sterminando in nome degli Asburgo la civiltà azteca. Infatti, se in Meyrink – dalla Notte di Valpurga ai racconti – la capitale boema costituisce lo sfondo necessario e la filigrana di vicende che ne disegnano una nuova inquietante topografia, dove «il sangue è la sua vera acqua sotterranea» e il Golem non è più un risibile fantoccio d’argilla ma un fantasma reale che taglia la Praga d’inizio secolo, turbando le coscienze, in Perutz la città sembra invece essenzialmente assente, anche se nel 1907 aveva pubblicato un bel racconto (poi rielaborato nel ’20) incentrato sul suicidio del sergente maggiore Chwastek, il tutto inquadrato nella fragile cornice di una Praga cartolinesca (un’osteria, un caffè, un appartamento sulla Karlova). Se si esclude, poi, un unico successivo raccontino ambientato nella Praga rudolfina (uscito nel ’27 in un nostalgico Almanacco della Vecchia Praga), l’intera fascinosa prosa di Leo Perutz sembra muoversi altrove: fra le strade di Vienna, soprattutto, o nella Russia della Guerra civile, o nella Spagna delle Guerre napoleoniche.

Praga riappare in Perutz solo negli ultimi anni dell’«esilio israeliano», in un volume di leziosi quadretti (Di notte sotto il ponte di pietra, 1953, originariamente: Le ricchezze di Meisel) che la critica si ostina a chiamare romanzo, dove ritroviamo gli ammuffiti cliché del mondo di Rodolfo II, e dove il Golem – da Meyrink mutato in inquietante Mito della Modernità – torna ad essere solo un servitore d’argilla. E difatti non ci aveva stupito l’assenza di Perutz nella pur sconfinata Praga Magica di Ripellino. Ma, quel che è peggio, le facili prose del volumetto del ’53, così tranquillizzanti e «nostalgiche», sembrano quasi voler far passare in secondo piano quella che è invece la specificità dello scrittore: le sue raffinate geometrie, le sue trame inaspettate, quei personaggi come usciti da qualche inventario patologico, i bruschi mutamenti. Una prosa accattivante ma mai banale. Persino Robert Musil (che gli fu sempre avverso ) gli riconosce, nel ’20, il merito di essere tra quelli che hanno creato «un tipo di narrazione asciutta ed esatta che ha soppiantato il romanzo d’appendice per famiglie», una prosa intelligente, insolita e frammentata»)  adatta al tempo nuovo che è «quello dei quotidiani». Ma affacciamoci un istante nella sua vita.

Dopo aver lasciato Praga nel 1899, Perutz frequenta a Vienna il Liceo (è allora che inizia a scrivere La terza pallottola) e poi, al Politecnico, corsi di matematica attuariale e calcolo delle probabilità. Nel 1907 lo troviamo a Trieste alle Assicurazioni Generali (c’era grande mobilità all’interno dell’Impero austro-ungarico). Buffa coincidenza: nello stesso periodo, nella sede di Praga delle Generali era impiegato anche Franz Kafka: studia l’italiano e sogna Trieste. Entrambi daranno le dimissioni nel luglio 1908. Kafka passerà alle Assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e Perutz a un’altra compagnia assicurativa di Vienna, dove rimarrà fino al 1923 (l’anno di un altro suo grande successo: Il Maestro del Giudizio Universale), elaborando nel frattempo anche quella che sarà conosciuta come la «formula di equivalenza di Perutz» sui tassi di mortalità, utilizzata ancora per tutti gli anni Venti.

Quando nel ’15 era uscito il suo romanzo d’esordio, Perutz era stato appena richiamato in fanteria e spedito in Galizia, dove verrà gravemente ferito ai polmoni. Una volta dimesso venne assegnato all’Ufficio Stampa del Ministero della Guerra, dove collaboravano scrittori del calibro di Musil, Rilke, Werfel. E il crollo della monarchia asburgica fu per lui un trauma insanabile.

Perutz è però ormai diventato uno degli scrittori tedeschi più letti, i giornali gli chiedono anticipazioni, pubblicano a puntate i suoi nuovi romanzi, e poi racconti, note di viaggio. Anche Hollywood si muove: la Mgm acquista i diritti del romanzo Dalle nove alle nove (1918), storia dell’irrequieto studente Stanislaus Demba che vaga un intero giorno ammanettato per le strade di Vienna alla ricerca del denaro per riconquistare la fidanzata perduta. Si muove anche Friedrich W. Murnau, a caccia di soggetti. Il giovane Hitchcock rimane anche lui colpito da quell’uomo prigioniero delle manette, e le infilerà ai polsi del protagonista dell’Affittacamere (1927), uno dei suoi primi innocenti perseguitati dalla legge.

L’ingresso dei tedeschi a Vienna nel marzo 1938 è per lo scrittore un secondo trauma, mentre i suoi libri già scompaiono dalle librerie. Perutz lascia l’Austria per trasferirsi in Palestina, dove continuerà a parlare solo tedesco e si sentirà sempre più «un corpo estraneo», soprattutto dopo la formazione dello Stato israeliano che cancella definitivamente quella convivenza tra arabi ed ebrei che tanto lo affascinava: «Qui mi sono sempre sentito a favore di uno Stato fatto di due nazioni e ora appartengo al novero degli sconfitti». Morirà nel ’57 durante un viaggio nell’amata Austria.

Ma cos’è che ancora oggi ci avvince nei romanzi di Leo Perutz, questo personaggio che le cronache del tempo descrivono anche burbero, inutilmente aggressivo, di sicuro sempre in quello che per lui è ogni volta il «posto sbagliato»? È difficile parlare dei suoi libri senza rischiare di tradire le sue trame. Certo, quello che maggiormente colpisce è l’instancabile capacità di  mescolare le carte, usando con perizia i «manoscritti ritrovati», le memorie scritte o orali, le cornici narrative, disseminando i suoi testi di narratori in prima persona, ma talvolta anche raddoppiando le voci narranti, aggiungendo magari un «curatore fittizio» (come nel Maestro del Giudizio universale), e godendo poi delle contraddizioni, delle incrinature che si aprono sulla pagina. Oltre a mescolare abilmente le carte, talvolta in Perutz il «banco» sembra anche non distribuirle tutte quelle carte, e allora appare in qualche suo romanzo un narratore «reticente» o persino «inaffidabile», che con la sua strategia e i suoi tranelli prepara il gioco illusionistico finale, il colpo di scena che sbaraglia la realtà, obbligando il lettore a una «ridefinizione» di quanto ha fino ad allora letto col fiato sospeso.

È soprattutto la scarsa capacità percettiva dei suoi personaggi, sempre tormentati dal Passato o posseduti da un’idea fissa (come la voglia di vendetta per il protagonista di Tempo di spettri, 1928), a favorire la loro incapacità a orientarsi, il loro spaesamento. Inclini a depressioni psichiche o perdita della memoria, a slittamenti della loro identità, perseguitati da sensi di colpa o da insanabile squilibrio, saranno loro stessi a favorire quello che possiamo definire «il compiersi del Destino», che – come nelle narrazioni mitiche – impietosamente li sbaraglia con l’ineluttabilità di una formula matematica (come gli attoniti ufficiali francesi nel Marchese di Bolibar, 1920). E, non casualmente, parlando nel 1930 delle prose «fortemente ritmate e sincopate» di Perutz, Walter Benjamin ricordava quello spietato modello di precisione che è «l’orario ferroviario».

La terza pallottola, il suo primo romanzo, sembra anticipare e al tempo stesso esibire nel suo pieno sviluppo la strategia che Perutz pare prediligere. Composto in apparenza come la semplice ricostruzione delle vicende di Franz Grumbach «e delle sue tre pallottole», il testo comincia davvero (quasi) come un romanzo storico, all’indomani della vittoria di Carlo V sui protestanti a Mühlberg nel 1547. E non solo le vicende di Cortés in Messico sembrano rispecchiare fatti veri, ma anche il personaggio di Grumbach sembrerebbe avere un suo modello reale nella Germania del ‘500. Anzi: due. Perché è così che funzionano i romanzi «storici» di Perutz: forniscono all’autore una planimetria su cui poi far dipanare tutta un’altra storia. E la storia che ci viene narrata è quella di un ufficiale di CarloV, capitan Lusco, la cui memoria è ormai un guscio vuoto, e che ascolta un vecchio soldato raccontare la vicenda del coraggioso Grumbach, che sembra ricordagli la sua di storia, quella che lui non ricorda più. Il Lusco lotta contro quell‘amnesia che incombe, e contro l’insonnia. L’elisir del dottor Cremonius forse lo aiuta a ricordare, ma il sonno è più ostinato, il sonno si comporta «alla stregua di uno di quei boriosi e azzimati bellimbusti spagnoli. Altezzoso, si nega quando lo chiamo, (…) finge di non conoscermi. Porta un collare bianco intorno al collo e nella sua corazza si rispecchia il mondo». Questo racconta capitan Lusco, che con quelle metafore quasi gongoriane sembra volerci dire qualcosa di quel passato disciolto.

Il romanzo procede così, per contrasti: tedeschi e spagnoli, spagnoli e aztechi, Cortés e Montezuma, Cortés e Grumbach (schierato contro l’imperatore e dalla parte degli indigeni), e poi ancora la tredicenne Dalila («dalle membra affusolate che parevano tornite in un legno scuro, di specie rara») e la cortigiana Catalina… e infine l’imponente lotta tra Grumbach e il fratellastro, il perfido duca di Mendoza, nelle cui vene «non scorre sangue bensì solo la sabbia ardente del deserto dei mori» e, a passargli accanto, «a me parve di sentire un lieve fruscio, uno scricchiolio, come di sabbia fine». E via di seguito fino all’apparizione dell’archibugio e delle tre pallottole con le quali Grumbach vuole «annientare da solo l’intera Armada spagnola». E la maledizione lanciata su di lui. E capitan Lusco che, anticipando tutti i personaggi di Perutz che verranno, ascoltando quel racconto cerca di ricomporre la sua memoria e la svanita identità.

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