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Lena Waithe, una voce militante nella cultura pop

Lena Waithe, una voce militante nella cultura pop

Intervista Parla la sceneggiatrice e attrice, prima donna nera a vincere un Emmy per lo script di una commedia. Creatrice della serie «The Chi», attivista queer, nel coro di autori black emergenti si distingue per originalità

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 1 maggio 2018
Luca CeladaLOS ANGELES

Produzione culturale di massa e Tv in particolare hanno da sempre svolto un ruolo di integrazione e assimilazione nella società multiculturale americana, veicolando il progresso sociale lungo le fratture storiche della società americana: classe, razza, gender. Nel momento dell’involuzione reazionaria trumpista, Tv e cinema sono fulcro di una resistenza che alle recrudescenze razziste e xenofobe oppone visibilità, diversità ed inclusione.

Mentre le leve del potere produttivo – e del finanziamento – rimangono saldamente in mano all’establishment bianco e maschile, le serie registrano una proliferazione di personaggi femminili, gay e transgender e non gender-specific, che riflettono anche una maggiore presenza di voci «minoritarie» nelle writers’ room degli Studios. Particolarmente fertile la nuova produzione afroamericana. Nel cinema con l’oscar a Moonlight e i film di Ava Du Vernay (da Selma a Nelle pieghe del tempo), Mudbound di Dee Rees e il trionfo (identitario e commerciale) di Black Panther di Ryan Coogler.

Al Sundance si proietta nuovo cinema agit-prop come Dear White People di Justin Simien (del 2014, da cui poi è stata tratta l’omonima serie Netflix) e quest’anno Sorry to Bother You di Boots Riley: satire tinte di hip hop e affinate sui picchetti di Black Lives Matter. Nuove narrazioni il cui terreno è stato preparato dalla comedy di Keegan-Michael Key e Jordan Peele – quest’ultino autore del film caso dell’anno scorso: Get Out – satira razziale sotto mentite spoglie horror che al regista ha fruttato un Oscar per la sceneggiatura originale. In Tv Atlanta di Donald Glover e Insecure di Issa Rae aggiornano l’esperienza nera una generazione dopo Spike Lee, affiancandosi alle superpotenze dell’establishment black: Oprah Winfrey, Shonda Rhimes (Scandal) o Lee Dabniles (Empire).  

Nel coro di voci emergenti si distingue per originalità quella di Lena Waithe, autrice uscita dalla South Side di Chicago, militante apertamente queer, prima donna nera a vincere un Emmy come autrice (di Master of None di Aziz Ansari).
La trentaquattrenne scrittrice che questo mese campeggia sulla copertina di «Vanity Fair» è stata scritturata da Spielberg per recitare in Ready Player One ed è ora creatrice e showrunner di The Chi – serial sulla vita nel ghetto della Southside di Chicago. Waithe è il volto di un irredentismo culturale in cui i nuovi autori neri assumono una posizione di forza nella mediazione fra cultura dominante e voci alternative, fra militanza e cultura pop.

Come sei diventata una scrittrice?
Sono cresciuta nell’era dei Robinson (Cosby Show) e poi Tutti al college (A Different World), quando erano i programmi numero uno e numero due d’America. E non erano «un po’ neri», ma veramente neri. Specialmente Tutti al college, quando verso la fine della serie si affrontava il pestaggio di Rodney King e le rivolte (di Los Angeles, ndr). Così da ragazza ho visto il lavoro di autori che si sono detti «vogliamo fare qualcosa, non solo di divertente ma che abbia anche un significato duraturo». Cioè che mi hanno mostrato che era possibile creare personaggi afroamericani cool ma che allo stesso tempo andavano all’università. E ho presto imparato ad unire le mie due passioni: scrivere e guardare la Tv.

Quali sono state e quali sono le tue ispirazioni?
Non sono il tipo di autore che cerca di non venire influenzata da stimoli esterni, anzi. Ad esempio Atlanta mi ossessiona: da un lato mi fa venir voglia di buttare il computer dalla finestra, ma subito dopo di correre giù dalle scale, riprenderlo e cercare di scrivere ancora meglio di loro. Donald Glover sta facendo qualcosa di veramente coraggioso – scrive «molto nero», non gli interessa chi capisce la battuta, non gli interessa se non fai parte della «famiglia». Alla stessa maniera anche Get Out mi ha aperto gli occhi, e così Moonlight che invece è riuscito a rappresentare personaggi afroamericani con riservatezza e introspezione inedite – ed è stato capace di rappresentare eloquentemente la solitudine e l’isolamento che implica essere neri e gay. Allo stesso modo guardo molti vecchi film, rivedo Thelma e Louise e vi trovo sempre nuovi elementi, e sono una patita di Bette Davis. Adoro riguardare Eva contro Eva o Tramonto. Come attrice davvero non conosceva la paura né la vanità e questo continua ad ispirarmi come autrice e come attrice.

Quali vorresti che fossero gli «effetti» del tuo lavoro?
Più di tutto vorrei che quando la gente sente dell’ennesimo giovane nero ucciso per strada dalla polizia non rimanesse semplice rumore di sottofondo. Che si pensi magari ai personaggi inventati di The Chi e che possano servire in parte ad umanizzare quelle persone anonime e sensibilizzare il pubblico alla loro umanità.

Cosa consideri avere successo?
Credo che soprattutto in America le definizioni di successo possano essere ingannevoli a un punto tale che persone che vivono vite magnifiche possono comunque sentirsi dei falliti. Per me il successo sta nel tentare, dare tutto e – anche se non riesci – la lezione che ne trai è di per se un piccolo successo. Non dobbiamo lasciare che siano gli altri a definire il nostro successo. Nel mio caso non si tratta tanto di avere una parte nel film campione di incassi o di aver vinto l’Emmy. Anche se non fosse stato così il vero successo sta nell’avere avuto quelle esperienze di lavoro, avere ascoltato le storie che mi raccontava Steven (Spielberg, ndr), vederlo all’opera, fare un provino. A volte siamo troppo concentrati sul risultato mentre il vero successo è averci provato.

Allora qual è l’obbiettivo finale?
Conquistare l’industria, renderla uguale alla nostra società: colorita, diversa, vibrante, sola, confusa, triste. Vorrei che ogni volta che andiamo al cinema non dovessimo sentirci bombardati da film fatti al solo scopo di guadagnare soldi. Vorrei che ci fosse ancora un elemento spirituale. E vorrei che tutte quelle persone che si sentono impotenti potessero giungere a provare quello che oggi sento: di avere del potere. Mi è stato chiesto recentemente di scrivere una cosa sul cinquantenario della morte di Martin Luther King, e trovo assurda l’idea che possa essere stato messo a tacere da quel proiettile. È vero, dopo il suo assassinio la nostra gente in parte si è persa, stiamo ancora cercando il suo fantasma, la sua voce. Allo stesso tempo puoi uccidere il leader di un movimento ma non il movimento, quello vive ancora.

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