Dieci anni sono tanti: non impongono un bilancio che nessuno di noi è in grado di trarre, ma di certo incoraggiano una riflessione collettiva. Proveremo a cominciarla oggi e domani a Rimini, in un incontro fortemente voluto da Luciana Castellina e dai compagni di sempre ma anche da un gruppo di militanti e studiosi più giovani, che alla vicenda politica e intellettuale di Lucio Magri guardano con un sentimento di appartenenza.
Per quali motivi? Quali sono le ragioni di attualità del suo pensiero e della sua biografia politica?

Innanzitutto il profilo, vorrei scrivere lo stile. Magri ha incarnato – come pochi prima di lui, quasi nessuno dopo di lui – la figura del politico intellettuale, dotato di una grande formazione classica, capace di tradurre cultura in organizzazione e di fare dialogare, sempre, analisi concreta, tattica e strategia. Il suo marxismo eterodosso, anti-economicistico, ha fatto dell’invito, caro a Napoleoni, a “cercare ancora” un vero imperativo, reso più umano e affascinante da quel tratto di curiosità, inquietudine, generosità e rigore che lo ha segnato.

Ma se devo individuare tre elementi magriani che vivono come tracce di attualità, motivi che parlano al presente e nel presente, non ho dubbi: la rinnovata questione del rapporto con il mondo cattolico; la centralità del conflitto tra lavoro e capitale dentro un’analisi del modello di produzione in divenire; il tema della democrazia e del soggetto politico.

Il rapporto con il mondo cattolico è uno degli aspetti meno studiati di Magri, che invece nasce politicamente dossettiano dentro la Dc e mantiene per tutta la vita un’attenzione e un dialogo speciali con quell’universo di esperienze e di valori. Magri è figlio del cattolicesimo bergamasco, nel quale cresce Giovanni XXIII e a cui si rivolge Togliatti nel discorso del 1963 sul destino dell’uomo. Il pontificato di Francesco chiama oggi come allora la sinistra a un percorso comune: nella critica verso un «sistema economico che uccide», nella necessità della cura della «casa comune», nella difesa di una dimensione dell’umano non a disposizione del profitto, contro la cultura dello scarto.

In secondo luogo, la centralità del conflitto tra lavoro e capitale, la questione operaia. Non sembri un controsenso, nella nuova era del dominio del calcolo, dell’algoritmo, di una superfetazione tecnologica che ci costringe a ripensare dalle fondamenta le modalità della valorizzazione e dell’accumulazione, la natura del soggetto subalterno, persino la forma del potere. Rimarcare l’eccezionalità di Magri nella sua lettura del lavoro è utile non solo perché ci offre un modello analitico (il capitalismo si studia a partire dalla struttura produttiva, dalle dinamiche costitutive dei suoi gangli vitali) che è – di per sé – predittivo e anticipatore, come i suoi scritti hanno sempre dimostrato, dall’inchiesta operaia alla fine degli anni Cinquanta sino agli allarmi sulla questione ambientale attivati già nei primi Settanta. Ma è utile anche perché obbliga a ricordare quale debba essere – nella pratica politica – il riferimento necessario, il «soggetto della trasformazione».

Ecco allora il terzo asse che chiede spazio nella riflessione dell’oggi: è il tema della soggettività politica e del partito, che si lega – in termini rigorosamente gramsciani – alla questione della democrazia.
Magri propone, sin negli ultimi scritti, un’idea di democrazia più profonda, più ampia, di tipo consiliare, che non contraddice il terreno della rappresentanza classica ma lo rafforza con istituti di autogoverno e di autogestione, di diretto protagonismo popolare.

Questo bisogno di protagonismo vive come proiezione nell’idea di società e vive al contempo come urgenza di partecipazione e di democrazia più piena dentro il momento della politica e della sua organizzazione. A quest’altezza, agisce come esigenza teorica e come insoddisfazione pratica e permanente nel confronto tra il partito ideale e il partito reale. Dallo scontro della prima metà degli anni Cinquanta nella Dc, passando per i decenni centrali e inquieti che tutti ricordiamo (il Pci, il manifesto, il Pdup, il Pci, Rifondazione) fino alla delusione e al distacco finale, con la consapevolezza che tutto fosse finito.

Da questo senso di vuoto occorre ripartire. Sentendo su di noi il rovello di questa tensione, di una dialettica non risolta che ci spinge allo studio ma anche all’azione. Alla ricerca, nella società, nella cultura, in primo luogo nelle nuove generazioni e nelle esperienze più avanzate, di quel bisogno di protagonismo democratico e di radicalità che può germogliare verso un soggetto politico all’altezza dei tempi nuovi. Con le radici – questo è chiaro – ben piantate nella grande storia e nella nostra cultura politica. E sì, anche in quel suo stile politico-intellettuale che manca e di cui abbiamo bisogno.