Europa

Le start up di Bruxelles al bivio del Covid

Le start up di Bruxelles al bivio del CovidFoto – Archivio

La ripresa economica Lo strano caso di Bruxelles, dove la crisi ha aperto la strada dell’innovazione tecnologica per le aziende. In molti casi però prevale l’opportunismo e proliferano i «bullshit job»

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 22 giugno 2021

La crisi del coronavirus ha colpito la popolazione mondiale non solo a livello sanitario, ma anche sul piano sociale ed economico. Più nello specifico, è stato risonante l’impatto che la pandemia ha avuto sulle start-up mondiali: stando al Global Startup Ecosystem Report 2020 (Gser2020), le aziende neonate prima o durante lo scoppio del Covid-19 hanno riscontrato un altissimo tasso di licenziamenti, con tagli del 33% sul personale delle singole aziende. In poche parole, quattro start-up su dieci tra Londra, Dubai, New York e Sydney, hanno sofferto di due grandi onde d’urto, lo shock di capitale e di domanda, che le hanno portate sia ad interrompere il processo di fundraising che a vedersi risucchiate nella cosiddetta “red zone” della vita di un’azienda, con tre mesi di liquidità terminali.

LA CRISI NON HA RISPARMIATO neanche le start-up e le scale-up nate nel cuore pulsante dell’Europa, Bruxelles, colpendole più duramente del previsto: tutte, infatti, hanno sperimentato cali di crescita più netti, con perdite fino al 60%. Secondo il sondaggio di Deloitte, l’outlook del Belgio è passato da stabile a negativo: più di 700 fondatori e leader di start-up della capitale belga hanno riscontrato problemi di liquidità nei settori della ristorazione (-93%), dei trasporti (-73%) e del commercio (-59%), in una «completa dissoluzione» dell’ecosistema belga che ha visto clienti tirarsi indietro e ha portato al rinvio di molti nuovi contratti.

A un anno dallo scoppio della crisi sanitaria, l’appello lanciato dalle start-up belghe, in particolar modo quelle di Bruxelles, ai governi fiamminghi e valloni, ha prodotto un cambio di marcia, che ha riportato speranza non solo nel comparto, ma anche nella più ampia dimensione socioeconomica belga. Come in un remake contemporaneo del racconto gotico di Stevenson, le start-up della capitale europea hanno attraversato il vortice da Covid-19 per cambiare faccia al proprio destino professionale e finanziario: da “mister Covid” a “dottor Innovation”.

MA È DAVVERO POSSIBILE rendere l’innovazione il fattore scatenante di una contro-rivoluzione socioeconomica per superare brillantemente la crisi? Forse si: dapprima gli imprenditori hanno ottimizzato la call “dell’acceleratore” del Consiglio europeo per l’innovazione (Eic), vincendo il bando rivolto alle imprese tecnologiche che, nel corso della pandemia, avessero trattato la lotta contro il Covid-19.

Poi, hanno approfittato delle misure federali nazionali che hanno rifinanziato nel 2021 una nuova traiettoria di crescita in direzione della sostenibilità tecnologica. Dati alla mano, nonostante la crisi, le statistiche di “The Starters Atlas”, che ha mappato il quadro di nuove start-up, parlano chiaro: nel 2020 il numero di imprenditori che hanno avviato un’impresa è cresciuto dello 0,64%, ma il segno positivo rappresenta un aumento complessivo nel contesto della pandemia globale.

Secondo il portale fiammingo De Standaard, la sola regione di Bruxelles ha visto un incremento dell’11%, con 11.273 nuove imprese registrate nel 2020. Un numero esorbitante, se lo si compara con quelle delle Fiandre (65.555) e della Vallonia (23.622), le quali hanno, però, hanno una dimensione geografica dieci volte superiore.

Nonostante le preoccupazioni per il turning point, legate ad una minore gettata di nuovi affari, il 15% delle neonate imprese della capitale europea vive la sfida della rinascita economica con uno spirito diverso, fiduciose che il loro business riemergerà più forte. Perché tanta “tranquillità”?

LE STATISTICHE, che narrano in previsione una crescita del 70% delle start-up rispetto al 2020, confermano il percorso al rialzo della capitale europea in termini di sostenibilità digitale: il Covid-19 Innovation Report ha elogiato le start-up di Bruxelles per essere quelle che hanno maggiormente performato una risposta efficiente alla crisi pandemica. Dall’altra parte, invece, lo European Startup Survey ha confermato come il 90% delle start-up consideri Bruxelles “the place to be” per avviare un’impresa, anche durante la crisi sanitaria, classificandosi più in alto di Parigi, Londra e Berlino in termini di tecnologie dell’informazione e di offerte di coaching.

L’INNOVAZIONE, insomma, ha rappresentato il vero e proprio motore dell’occupazione belga, il propulsore necessario a scongelare il blocco di assunzioni e a ridare linfa al mercato del lavoro.

Ma se i dati parlano di una rinascita, il passaggio da nero a bianco è caratterizzato da una transizione ancora poco chiara: nella capitale europea, nonostante la crisi, si è creata una sorta di “febbre da start-up” causata dalla troppa facilità a mettere su un’azienda. I cospicui finanziamenti e le tante speculazioni che girano intorno a Bruxelles l’hanno resa la preda perfetta per chi ha provato ad agitare la bandiera dell’innovazione, pur non effettuando cambiamenti sostanziali in questa direzione.

Infatti come contraltare al mantra dell’innovazione, troviamo in questo caso un aumento dei cosìdetti “bullshit jobs”, ossia i lavori privi di una reale utilità sociale, che, anche durante la pandemia, hanno ribaltato gli standard della bolla europea: in preda alla necessità di non soccombere nella crisi finanziaria, l’utilitarismo ha preso il sopravvento sulla qualità e il danno morale alla società ha vinto sulla serietà professionale. Altro che innovazione: una contro-trasformazione in negativo, sotto forma di “variante lavorativa”, da dottor Innovation a mister Bullshit.

NON È STATO QUESTO IL CASO della start-up belga a trazione italiana TotalEU Production di Alessio Pisanò, giornalista e videomaker italiano. La sua società, specializzata nelle video news, ha espresso la sua “innovazione” adeguando il proprio expertise in base alle nuove esigenze digitali: è passata dal videomaking prevalentemente sul campo al “videomaking online”, trasmettendo i propri servizi sui piccoli e grandi schermi dei propri clienti.

Lo streaming è stato un vero «grattacapo da risolvere», ha spiegato, ma si è poi trasformato in «opportunità di crescita professionale», in direzione di un miglioramento della capacità di sapersi «ridimensionare in un mercato sempre più competitivo». Pisanò ha risposto con serietà, ma l’ambito della “consultancy”, invece, ha approfittato della nuova struttura creatasi per estendere le caratteristiche delle cosiddette “features of bullshit”, le attività di management necessarie al superamento della crisi da Covid che tanto necessarie non lo sono mai state.

INSOMMA, BRUXELLES, cuore dell’Europa, in questo anno complesso da interpretare sul piano economico e lavorativo, ha reagito in maniera ambivalente, diventando sia il centro dell’innovazione professionale ma anche l’hub dell’imprenditoria della “fuffa” digitale. Tra mentoring, networking e tanto Covid, le startup di Bruxelles hanno sicuramente contribuito al cambio di paradigma in direzione di un’economia che faccia da motore al cambiamento sociale.

Ma a che prezzo? Vendendo l’anima al Dio denaro, in alcuni casi, e trasformando l’emergenza in seria opportunità, in altri. Modificando, cioè, la propria identità a seconda delle esigenze, a metà tra “dottor Innovation” e “mister Bullshit”.

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