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Le speranze deluse sul lungomare di Gaza

Le speranze deluse sul lungomare di Gaza

Il reportage Resta chiuso il valico di Rafah, ma gli abitanti di Gaza, a migliaia in attesa di passare in Egitto per studio, lavoro o per curarsi non possono che sperare che l’accordo Fatah-Hamas regga

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 16 novembre 2017
Michele Giorgioinviato a Gaza

È un pomeriggio tranquillo a Gaza city. Eppure le tensioni non mancano. Israele qualche giorno fa ha dichiarato «area militare» tutto il confine con questa parte del territorio palestinese.

La distruzione da parte dell’esercito israeliano di un tunnel sotterraneo che da Gaza sbucava nei pressi del kibbutz di Kissufim, ha ucciso 14 palestinesi, quasi tutti militanti del Jihad islami, e l’ala armata dell’organizzazione, Saraya al Quds, minaccia di vendicare la loro morte e chiede la restituzione dei corpi di cinque delle vittime, ancora in mano a Israele. Il pericolo di una escalation è concreto ma gli abitanti di Gaza, per una volta, sembrano non farci caso.

IL LUNGOMARE è affollato di famiglie che passeggiano approfittando delle temperature alte come di un’estate che sembra non finire mai in questo spicchio di Medio Oriente. L’accordo di riconciliazione firmato il mese scorso al Cairo tra il partito Fatah del presidente Abu Mazen e gli islamisti di Hamas, al potere a Gaza fino a qualche settimana fa dopo averne preso il controllo con la forza nel giugno 2007, ha ridato ossigeno alla speranza della gente di questo lembo di terra schiacciato tra Israele ed Egitto, un grande carcere per due milioni di palestinesi dal quale si può uscire solo con il permesso di questi due Paesi.

La speranza è mista allo scetticismo. «Mi auguro che la riconciliazione diventi un fatto compiuto e di vedere presto dei miglioramenti. Per il momento però non è cambiato nulla nella nostra vita, i problemi sono gli stessi», ci dice Amir, ex studente universitario di 23 anni. «Quello più urgente – spiega – è la mancanza di energia elettrica, l’abbiamo solo per quattro ore e gran parte delle attività lavorative sono costrette a fermarsi. Non sono ottimista perché ogni giorno ci sono nuovi ostacoli». Amir dice quello che pensano, e temono, molti degli abitanti di Gaza. «Questa volte le due parti (Fatah e Hamas) sembrano più serie», aggiunge il suo amico Heider, «ma l’accordo è fragile. Abu Mazen non ha ancora revocato le sanzioni contro Hamas eppure sa che colpiscono tutta la popolazione».

Se l’elettricità, la scarsità di acqua potabile e la disoccupazione sono i problemi principali, a Gaza proprio non riescono a digerire le migliaia di «pensionamenti» anticipati decisi di recente dal presidente palestinese per tagliare il costo dei dipendenti dell’Anp nella Striscia. Taher Hilu non sa dove sbattere la testa. «Ho 41 anni e già sono in pensione – ci dice – Secondo Abu Mazen posso vivere con 1200 shekel al mese (circa 300 euro), meno della metà del mio stipendio. Ora non so come fare, in famiglia siamo in cinque, mia moglie, io e tre figli ancora piccoli. E trovare un lavoro per guadagnare qualcosa è difficile, qui non c’è lavoro». Il tasso di disoccupazione a Gaza è tra i più elevati al mondo, tra i giovani tocca il 65%.

CON LA FIRMA dell’accordo, il mese scorso al Cairo, Hamas ha ceduto al governo palestinese la gestione civile di Gaza. Il 1° novembre si è fatto un altro passo in avanti. Gli islamisti hanno trasferito alle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) il controllo dei valichi con Egitto e Israele.

Tuttavia la riapertura prevista ieri del transito di Rafah con il Sinai, non è avvenuta, per lo sgomento di migliaia di palestinesi che attendevano di poter lasciare Gaza per ragioni di studio, per curarsi negli ospedali egiziani e per affari. Il regime di Abdel Fattah al Sisi vuole che al terminal di Rafah ci siano solo uomini di Abu Mazen – che non sono ancora giunti, per decisione del governo del premier dell’Anp Rami Hamdallah, che dice di attendere che la gestione della sicurezza a Gaza sia definita con chiarezza – in modo che i palestinesi contribuiscano, almeno con i servizi di intellingence, alla sicurezza nel Sinai dove l’esercito egiziano è impegnato in una guerra infinita con i miliziani di Ansar Bait al-Maqdis, alleati dell’Isis. Alla fine il conto l’hanno pagato di nuovo i civili palestinesi.

LA RIAPERTURA DI RAFAH è perciò rinviata almeno fino al 21 novembre, giorno in cui cominceranno, in Egitto, i negoziati sui punti rimasti in sospeso dell’accordo di riconciliazione, a partire dal ruolo delle Brigate «Ezzedin al Qassam», la milizia di Hamas, di cui gli islamisti escludono categoricamente il disarmo. Abu Mazen ripete che a Gaza, come in Cisgiordania, non potranno operare due distinte forze di militari.

«La questione non riguarda solo Ezzedin al Qassam ma tutte le organizzazioni della resistenza palestinese, dal Jihad al Fronte popolare», afferma Khalil Shahin, vice direttore del Centro palestinese per i Diritti Umani. «Tutte le forze palestinesi, ad eccezione dei vertici di Fatah, insistono affinché non si disarmi la resistenza, per difendere Gaza da nuovi attacchi di Israele. Non sarà facile arrivare a un’intesa», conclude.

IL PRESIDENTE PALESTINESE per ora ha accantonato la questione ma è soggetto a forti pressioni internazionali. Israele, da parte sua, ripete che dialogherà con il futuro governo palestinese di consenso nazionale solo se rispetterà le tre condizioni poste dal Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Russia, Onu e Ue): fine della lotta armata, applicazione degli accordi tra Israele e Anp e riconoscimento dello Stato ebraico.

A Gaza qualcuno sussurra che, dovessero mettersi per il verso sbagliato le trattative al Cairo, Abu Mazen punterà il dito contro le armi del movimento islamico per bloccare la riconciliazione. Hamas, almeno per ora, usa toni morbidi. «Aver trasferito il controllo civile di Gaza all’Anp è un vantaggio enorme per Hamas», spiega l’analista Aziz Kahlout, «governare, si sa, fa perdere consensi e (Hamas) ne aveva persi tanti qui a Gaza. Ma – avverte Kahlout – la questione delle armi della resistenza è una linea rossa. Hamas, non vi rinuncerà in nessun caso ed è pronto, se necessario, a rimettere in discussione tutto».

A GAZA in questi giorni si temono i riflessi delle tensioni che attraversano il Medio Oriente e una possibile opposizione dell’Arabia saudita alla riconcilizione interna palestinese. La monarchia Saud è una nemica dichiarata del movimento dei Fratelli Musulmani e di Hamas «colpevole» di essere sponsorizzato dai rivali Qatar e Turchia e di aver riallacciato i rapporti con l’odiato nemico: l’Iran.

Abu Mazen che è stato a Riyad nei giorni scorsi smentisce e, attraverso il suo consigliere Ahmad Majdalani, ha fatto sapere che re Salman e il principe ereditario Mohammed si sono espressi a favore della riconciliazione.

SULLO SFONDO restano la ricostruzione di Gaza, tre anni dopo l’offensiva israeliana «Margine Protettivo», e le tante emergenze di questo pezzo di terra dimenticato dal mondo. «La popolazione continua a crescere ma le infrastrutture civili e i servizi sanitari sono in ginocchio e si aggrava la crisi ambientale a causa anche della mancanza di elettricità – ricorda Khalil Shahin – la ritrovata unità nazionale palestinese deve spingere la comunità internazionale a cessare il boicottaggio che ha attuato perché Hamas era al potere e ad intervenire subito con aiuti e progetti concreti, altrimenti per Gaza sarà il disastro».

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