Se avevamo ancora dubbi possiamo adesso fugarli tutti: la dottrina dell’austerity sta tornando alla ribalta.

Approvato dal governo italiano dei sovranisti redenti, il nuovo Regolamento Ue annuncia una nuova epoca di restrizioni di bilancio. E l’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale dedicato all’Italia va persino oltre. La tesi da cui partono gli economisti di Washington è la solita: il nostro debito pubblico è troppo alto e dobbiamo ridurlo tagliando il bilancio statale.

La proposta per diminuire il debito è che entro due anni lo Stato crei un eccesso di entrate fiscali rispetto alla spesa pubblica al netto degli interessi pari a tre punti percentuali di Pil. Ossia, il Fmi invoca una stretta progressiva nell’ordine di una sessantina di miliardi. L’invito, senza tante cerimonie, è a rituffarci nel vecchio mare tempestoso delle lacrime e del sangue.

Alcuni avversari del governo Meloni hanno colto l’occasione per rimettere in funzione una vecchia grancassa: c’è una destra scriteriata che sfascia i conti pubblici, spaventa i mercati e finirà per alzare il famigerato spread, cioè lo scarto fra i tassi d’interesse italiani rispetto a quelli tedeschi. Questa destra andrebbe allora sostituita da una maggioranza di governo responsabile, che rimetta in ordine le casse statali prima che sia tardi.

La pensano così i vari nostalgici dei governi guidati dagli ottimati: da Ciampi, a Monti, a Draghi. Per questi apologeti di una nuova tecnocrazia dei «conti in ordine», i partiti che ancora cercano di intercettare il consenso delle lavoratrici e dei lavoratori dovrebbero rassegnarsi al solito ruolo di portatori d’acqua. Torna così ad essere invocata una quaresimale «sinistra spread»: ancora una volta disposta a immolarsi sull’altare della cosiddetta «responsabilità» di bilancio. Con effetti notoriamente disastrosi in termini di consenso.

Ma quali sarebbero le basi scientifiche di questa nuova e auspicata svolta verso l’austerity? La risposta è che non esistono. Ce lo spiega, paradossalmente, proprio il Fmi. Nel World Economic Outlook dell’aprile 2023 sono riportati gli esiti di un’indagine sui programmi di riduzione del debito intrapresi da 54 nazioni tra il 1980 e il 2019. Ebbene, il Fmi ammette che in media i programmi basati sull’austerity «non portano a un effetto statisticamente significativo sul rapporto debito/Pil». L’indagine segnala pure che in vari casi il rapporto debito/Pil è migliorato con le politiche espansive, cioè l’esatto opposto dell’austerity.

Un tale risultato non costituisce una novità. La ricerca scientifica prevalente ha assodato che le politiche di austerity non aiutano a contenere il rapporto tra debito e Pil ma al contrario creano recessione, abbattono il Pil e pertanto rischiano di aumentare quello stesso rapporto. L’evidenza empirica insegna che per ridurre efficacemente il debito bisogna agire diversamente: soprattutto con un’azione forte della banca centrale per tenere i tassi d’interesse a livelli bassi, stabilmente inferiori ai tassi di crescita del Pil.

Un esempio lampante è rappresentato proprio dall’Italia. Per quasi un trentennio i vari governi nazionali hanno attuato politiche di austerity record, persino più rigide di quelle adottate in Germania. L’effetto è consistito in un andamento del Pil italiano peggiore rispetto alla media UE, con il risultato che il rapporto tra debito e Pil non è affatto diminuito. Anzi, sotto il governo Monti, “austerico” per eccellenza, il debito è pure aumentato. Le uniche fasi in cui la riduzione del debito è avvenuta sono quelle in cui la banca centrale ha spinto i tassi d’interesse sotto la crescita del Pil.

Emerge così una tipica contraddizione di questi tempi turbolenti. Pur tra mille imbarazzi, le grandi istituzioni economiche internazionali insistono nel propugnare ricette smentite dalle loro stesse ricerche scientifiche.

Gareggiare con Meloni e soci a chi sia il più bravo scolaro nell’applicare l’austerity suggerita dalle istituzioni internazionali è dunque insensato sul piano scientifico e stupido sul terreno politico.

La vera onta della destra di governo è che sta spostando spesa pubblica a favore di imprenditori decotti, faccendieri della finanza e monopolisti vari, e al contempo sta allentando la presa su inquinatori ed evasori.

La battaglia di una sinistra degna di questo nome dovrebbe allora riguardare la composizione del bilancio pubblico, non il suo saldo totale. La «sinistra spread» sia lasciata nello sgabuzzino dei fallimenti della storia.